giovedì 10 luglio 2014


Nel libro di Alfio Patti sull’universo
muliebre siciliano, canti e versi
ricostruiscono uno «spaccato
storico-sociale che dal Medioevo
arriva agli anni Cinquanta»

 

Ciuri d’aranci e spini santi cunti sulle donne
LA SICILIA CULTURA 10.07.2014

“Tra ciuri d’aranci e spini santi” è il titolo del nuovo libro di Alfio Patti (Radiusu Edizioni), che illustra, con dovizia di particolari, l’omonimo spettacolo, imperniato sull’universo muliebre siciliano, narrato per mezzo di folgoranti “cunti e canti popolari”. Questo lavoro offre uno spaccato storico-sociale che, partendo dal Medioevo, arriva fino agli anni Cinquanta del secolo scorso - dichiara Patti -. La protagonista è la donna siciliana. I fiori d’arancio rappresentano i sogni, l’amore, la sensualità, mentre le spine sante raffigurano le controversie, i dolori, le fatiche che il gentil sesso di Trinacria ha sempre sopportato con rassegnazione. L’idea di pubblicare questo libro, valorizzato dalle note di approfondimento, frutto di studi che durano da trent’anni, è nata dall’esigenza di soddisfare coloro che, dopo aver visto lo spettacolo, lanciato in occasione del centenario dell’indizione della giornata della donna (Copenaghen 1910), mi chiedevano dove avrebbero potuto leggere quanto espresso durante la mia performance. Con gioia porgo questo scrigno pieno di gioielli trovati nel grande baule della nostra cultura. Colgo l’occasione per ribadire che conoscere la  propria cultura, oltre ad essere un piacere, è un dovere, ora suggellato dalla legge regionale n. 9 del 31 maggio del 2011 con la quale all’art. 1 si fa obbligo a tutte le scuole, di ogni ordine e grado siciliane, di insegnare il patrimonio linguistico e storico-letterario della Sicilia. È caduto, così, il tabù che ci impediva di parlare delle cose di Sicilia, perché ritenute di secondo livello e ridimensionate a mero folklore”. “Corteggiamento”, con i versi del poeta e drammaturgo italiano Alessio Di Giovanni, “Lu sonnu di la notti m’arrubbasti, ti lu purtasti a dormiri ccu tia”, (“Il sonno della notte mi hai rubato, lo hai portato a dormire con te”), schiude l’opera suddivisa in sette sezioni. Subito in primo piano l’innamorato che, sotto la finestra dell’amata, defraudato del sonno, intona una serenata “per darle un saluto, per dichiararle i propri sentimenti, per chiederle la forza e il coraggio di  allontanarsi promettendo che, una volta ritornato, non ripartirà”. Segue “Fuitina”, (“Fuga d’amore”), “quadro di vita popolare fra i più coloriti e rilevanti della nostra tradizione”. Un capitolo ricco di riferimenti e citazioni, tra cui la romantica serenata, “si t’affacci di la barcunata, quannu la vuci di l’amuri senti, torna lu suli intra la me jurnata, e scordu tutti li me patimenti”, scritta da Francesco Foti e musicata da Salvatore Riela. Diversamente, con “Ratto”, la narrazione affronta, un aspetto crucciante. “Fino alla metà del secolo - spiega Patti -, accadeva che la ragazza veniva rapita, sequestrata e posseduta: in una parola violentata. Questo reato veniva poi sanato col matrimonio riparatore, art. 544 del Codice penale abrogato soltanto nel 1981”. Seguono, rispettivamente, i capitoli “Matrimonio”, insaporito dall’eloquenza di proverbi pepati, “l’omu è u cummu d’â casa e i fimmini sunnu li culonni” (“l’uomo è il colmo della casa, le donne le colonne”), “di li fimmini lu papatu è lu statu maritatu”, (“delle donne il papato è lo stato di sposata”), e “Figli”, con tanto di “drammi”, colorite congetture, spropositati cicalecci di “amici e parenti ai quali la coppia doveva inventare sempre nuove scuse per giustificare l’assenza di discendenti”. Patti avanza e, con “Solitudine”, pone l’accento sul ruolo delle “vedove bianche”, ovvero, tra fine Ottocento e anni Settanta del Novecento, le mogli costrette, loro malgrado, “ad amministrare l’economia, preparare la dote per le ragazze, educare i figli, mantenere il decoro e l’onorabilità della famiglia”, con i denari inviati dal marito emigrato per lavoro. Ancora, denuncia la violenza sulle donne ricordando “Cantu e cuntu” di Rosa Balistreri, brano dai toni amari e rivoluzionari sulle “infanzie rubate”, senza dimenticare, in chiusura, con “Perdere un figlio”, le signore alle quali la mafia ha strappato gli affetti basilari. Un lavoro invitante che, nel segno distintivo della “parola che si fa poesia e della poesia che diviene canto”, difende il presente preservando il passato.

GRAZIA CALANNA

Nessun commento:

Posta un commento