sabato 24 agosto 2013


Intervista alla poetessa Franca Mancinelli  
La scrittura è la nostra impronta, la traccia fossile del nostro passaggio sulla terra”
 di Grazia Calanna
 
La bellezza, come la coscienza, non mente. E, in coscienza, i versi di Franca Mancinelli sono belli di quella bellezza lieve propria dell’azzurro che “torna a coprire la terra”. Liriche protese verso l’oltre terreno dove “cucchiaio nel sonno, il corpo / raccoglie la notte”. Versi verso la nudità dell’essere, con occhi che al buio vedono più che al chiarore, con occhi che nel sonno scrutano “le tracce dell’uomo che ieri abitava i tuoi stessi vestiti”. Versi confidenti, adiacenti l’orizzonte, “Torneranno a tracciarsi le strade / alle scarpe che vanno / confermando i confini / di cose tra cose”. Versi - parliamo di “Pasta Madre”, Nino Aragno Editore - che, come scrive il prefatore Milo De Angelis, “possono avere una forza oracolare, la sapienza di chi è stato per tutto il suo tempo a contatto con la morte”. 
Quali sono i ricordi legati alla tua prima poesia?
Non ricordo di preciso quale sia stata e quando l’abbia scritta. Ad ogni modo è una delle poesie che sono poi andate a comporre Oltre la giostra, la prima sezione del mio primo libro, Mala kruna. Per anni, subito dopo l’infanzia, per tutta l’adolescenza, ho scritto d’istinto, ad occhi chiusi, cercando a tentoni di capire dove mi trovavo, quello che mi stava accadendo e soprattutto cercando una porta per uscire, per andarmene. Quaderni, taccuini, foglietti, sono andati a riempire due scatole che conservo nell’armadio. A volte li rileggevo come guardando vecchie foto, riavvolgendo il filmino della mia vita, senza che potessi credere davvero in loro, perché la vita continuava a travolgermi, in un modo assoluto, prepotente, molto più di quelle parole che venivano tardi, registrando qualche traccia, una breve scia. Poi, nei primi anni dell’Università, una dolorosa esperienza mi ha portato con le “spalle al muro”: un fucile puntato alla fronte, e ho aperto gli occhi. Ho ritrovato la scrittura ed era qualcosa di diverso. Ad un tratto ero al di là di un masso insormontabile che mi aveva sbarrato la strada. Ero passata oltre, senza sapere come.
Quali i poeti che ami e, più in generale, quali le letture rilevanti per la tua formazione?
Ci sono libri che ci aspettano sulla strada, per dirci qualcosa di noi, della direzione che dobbiamo prendere, di quello che dobbiamo attraversare. Come nelle fiabe i messaggi affidati alla voce di una strega, di un animale parlante, nascosti sotto una pietra, oppure proprio sotto i nostri occhi, sull’etichetta di una bottiglia, tra gli ingredienti di un dolce. Queste voci che mi hanno parlato, che mi hanno direzionato negli intrichi del bosco, sono Cesare Pavese, Fernando Pessoa, Rainer Maria Rilke, Leopardi, Dostoevskij, e naturalmente Dante. Le loro parole sono entrate trasformandomi, rimpicciolendomi più di un neonato, facendomi crescere più di un adulto, fino a schiacciare la fronte sul soffitto. Ho copiato per anni in un mio quaderno le frasi dei loro libri, da buona amanuense. Nei movimenti della mano sul foglio, sentivo le loro parole filtrare lentamente, immerse nel gesto che le faceva rivivere. Silenziose, sulla pagina, nella mia grafia, erano come riconquistate, erano mie per un momento più lungo della lettura. Poi entravano nella mia memoria, camminando per le strade serali, con un foglietto stropicciato che di tanto in tanto riportavo agli occhi mentre sillabavo nella mente o a labbra socchiuse. È stato il mio modo di ruminare.
«La vera poesia è il contrario della solitudine, proprio perché mira a rendere più intenso il rapporto con l'altro. L'artista solitario, rinchiudendosi nella propria differenza, finisce per non sopportare più gli altri. La vicinanza di altri poeti è invece sempre benefica alla poesia. Io ne ho beneficiato tutta la vita». Con Yves Bonnefoy per chiederti: il poeta, la poesia, oggigiorno, cosa abbisognano?
Sono d’accordo con Bonnefoy: sicuramente dell’altro, degli altri. Ho intitolato il mio secondo libro Pasta madre, pensando proprio anche a questo fondamentale bisogno. La pasta madre infatti è una materia che ha un’inesauribile potenziale di generazione, di vita, ed allo stesso tempo è fragilissima. Se non viene nutrita da qualcuno, muore, se non viene accolta, resta incompiuta, senza forma. La scrittura per me è qualcosa di molto simile: può essere madre di tante cose, portandole alla luce, ma è solo nel rapporto con l’altro, nel suo spazio di ascolto, che lievita un senso. Credo che la poesia per mantenersi in vita abbia bisogno di sentirsi parte di una comunità, di rimescolarsi nei gesti quotidiani, di impastarsi in questa antica e nuova materia della nostra lingua, oggi più che mai bisognosa di essere nutrita, non lasciata morire.
“ho scritto quello che volevo dirti / sotto le palpebre. Domani / appena le riapro leggerai”. Con i tuoi versi per chiederti qual è, del tuo “Pasta Madre”, il messaggio che consideri cardine per il lettore? Cosa auspichi possa, scorrendo lo sguardo, scegliere di custodire?
Non ho scritto questo libro con un progetto. Non sono mai riuscita a farlo fino ad ora. Non c’è quindi un contenuto o un messaggio che intendevo trasmettere. Sento molto la poesia come una traccia lasciata dal nostro corpo, con tutto il suo peso e la sua quotidiana lotta per mantenersi in vita, per ridare senso a gesti semplicissimi, che ci sostengono, come il preparare il cibo, il mangiare, l’abbandonarsi al sonno. La scrittura è la nostra impronta, la traccia fossile del nostro passaggio sulla terra. Nel lasciarla, non possiamo sapere cosa conteniamo, di cosa siamo portatori, che cosa abbiamo accolto. Con il tempo però, riguardando questi segni, possiamo riconoscere qualcosa di noi, di quello che ci ha abitato. E dal nostro profilo scorgere indietro quello dell’uomo e forse ancora più indietro quello della specie. Posso dire di avere riconosciuto alcune linee, alcuni contorni: nella parte centrale del libro, ad esempio, c’è la scia lasciata dal passaggio di un amore, o del suo fantasma, e poi quella di uno sguardo sulla maternità biologica, osservata come un miracolo, ma anche quella della scrittura che porta ad essere madre di se stessi, a prendersi cura della parte più fragile di noi, sollevandoci da terra, come fa una gatta che porta il figlio nella cuccia. Mi lascio scrivere, mi affido alla scrittura, ma la aspetto anche con inquietudine e timore, come un’infiltrazione che inizia a premere, a rigare il soffitto, frantumando quello che prima sembrava conosciuto, familiare. In questo libro ho vissuto la poesia come una materia originaria, umile, fatta di cose semplicissime come acqua e farina (voce e silenzio, bianco e nero). Mi auguro che chi transita attraverso queste pagine l’accolga, la contenga, la porti a compimento.
Ti porgo un quesito usufruendo (ancora) dei tuoi versi: “con la costanza degli insetti / torniamo contro questa / luce che non si apre, che ci spezza // quanto ancora busseremo / al vetro che divide / l’ossigeno dal cuore?”
La prima risposta che mi viene è “per sempre” o, perlomeno, ancora per molto. Questo “bussare” è legato al battito vitale, alla pulsazione del sangue. Ma è anche l’immagine di un’agonia, di una lotta per liberarsi. Mi è molto cara l’immagine degli insetti imprigionati in casa, che sbattono contro i vetri, cercando di tornare da dove sono venuti. Vanno verso la luce, ma con una sorta di cecità costante, autolesiva. Li ritrovi esausti, rovesciati sul dorso, inerti, sul davanzale. In questo scontro riconosco la scrittura, il suo battere contro un limite invalicabile che, pure, continua a richiamarci, come una promessa di una dimensione diversa, di un’aria finalmente nostra, liberata. Mi chiedo quante forze abbiamo ancora per ritentare, per resistere a quest’urto. Forse gran parte del nostro scrivere si è arreso ad aggirarsi dentro stanze di aria consumata, tra mobili e soprammobili e, astutamente (o forse saggiamente), non si dirige contro i vetri, non si spezza per seguire il richiamo della luce. 
Scegli alcuni dei tuoi versi per salutare i lettori.
Scelgo due poesie molto brevi che appartengono all’ultima sequenza del libro. Le ho scelte perché siamo nella stagione delle spiagge affollate, dei corpi allineati al sole e anche perché ripropongono il tema della scrittura-corpo di cui ti ho parlato. In entrambi i testi questo paesaggio marino evoca scenari inquietanti, prossimi alla morte: “dischiusi all’equilibrio”, soffermandosi sui corpi abbandonati all’acqua che, come si dice quando galleggiano sul dorso, “fanno il morto” (qui letteralmente); “trafigge il sole polsi abbandonati”, ritraendo invece questa sorta di rottura del gioco che ci regge nella quotidianità, e questo essiccamento che cerchiamo, a cui ci esponiamo. In entrambi alla fine quello che resta è un’immagine nitida di corpi, stagliati sulla sabbia o sull’asfalto. La nostra scrittura appunto, il nostro fossile.
 
dischiusi all’equilibrio, hanno creduto  
al varo e alla deriva
nel moto continuo. Anche i gabbiani  
passano su di loro senza grida.    
Così dopo un incidente  
restano sull’asfalto frutti intatti.
 
**
 
trafigge il sole polsi abbandonati.
Semivivi o cadaveri
sparsi come fiammiferi
di una torre crollata.
Ora la pelle prende fuoco
perché del sangue resti impronta secca.
 
 
 
(l’Estroverso n. 3 / 2013 su www.lestroveros.it – LA SICILIA versione ridotta, “Liriche protese verso l’oltre terreno”, 19.08.203)
 

lunedì 12 agosto 2013


IL SAGGIO DI ERICA DONZELLA SULLA POETESSA
Alda Merini, simbiosi di pensiero e d’ispirazione
di Grazia Calanna
(LA SICILIA CULTURA 13.07.2013)
 
“I poeti si riconoscono palmo a palmo col loro silenzio. La poesia sfianca, stanca, sconvolge, tormenta e poi scende a cullare il pianto della solitudine, con la sua potenza affilata, con un’innocenza di madre che asciuga il trucco sbavato della maschera che ogni essere umano indossa quotidianamente”. Parole di Erica Donzella, riflessioni  giovevoli alla comprensione di una scelta  qual è stata quella di intitolare un saggio alla “ragazzetta milanese”, come la definì Pier Paolo Pasolini, che, sottolinea, ricordandolo, la Donzella, “ha il piglio superbo di una piccola ape furibonda, che si nutre del nettare della vita, spesso amaro del dolore, ma pur sempre degno d’inchiostro e confessione; colei che canta la sua follia con la vertigine poetica dell’amore incondizionato per il mondo viscido e distratto che la confina”. Parliamo di “Alda Merini. L’amore in un Dio Lontano”, densissimo saggio, edizioni Prova d’Autore, che dalla vita, alle ricchissima produzione letteraria, scandaglia “versi che trasudano pietà e misericordia, solitudine e malattia, affanno e sospensione, vergogna e seduzione”. Il versificare per Alda Merini, scrive la Donzella, rappresenta (anche) la misura con la quale si relaziona al proprio corpo, “il nostro corpo è anche la misura della parola”. Ed è soprattutto l’antagonismo tra corpo e soffio vitale che ha un ruolo sostanziale nella stesura delle sue liriche: “È solo sospirando la carne che si arriva alla parola. Il corpo è l’anima raffinata”. Leggendo soccorrono i versi della stessa Donzella (tratti da “Pyro”, fortunato libro d’esordio), “Maledetta sia la mia carne / Maledetto il sapore che scivola su di te / Maledetto l’attimo del tuo sguardo / E la gravità / Che mi fece orbitare / Intorno al tuo sesso”, che in assonanza con la Merini plasma canti dai toni (tuoni) passionali, autentici, prorompenti. Una sinossi scientifico-lirica dell’universo meriniano, come evidenzia il curatore letterario, Mario Grasso. Un omaggio, arricchito dalle interviste (lucenti testimonianze) a Giuliano Grittini e Cosimo Daminao Damato, in memoria di una voce memorabile (decisamente fuori dal coro) del secondo Novecento letterario italiano. “Ad Alda Merini si arriva per innamoramento. Aveva ragione Damato, regista e amico della poetessa, a confessarmi tale segreto, bisbigliato dietro una cornetta telefonica in una notte di marzo. Alda Merini è la poesia, la più alta nell’eco della parola, della metafora, del dolore preso a schiaffi coi versi, cantati verso un dio lontano, così tanto presente, eppure distante. Alda Merini si ama. Ad Alda Merini si arriva per congiunzione naturale del vivere e del respirare. È simbiosi di pensiero e d’ispirazione, è madre di silenzio che avvolge e culla il poeta, che lo consola dagli abissi ancestrali dei tormenti”.  
GRAZIA CALANNA