sabato 23 novembre 2013

Intervista a Grazia Calanna, a cura di Claudia Zironi.

su Versante Ripido - nr.10 novembre 2013

Benvenuta Grazia. Innanzi tutto potresti dire qualche parola su di te per i nostri lettori?
Chi è e cosa fa Grazia Calanna nella vita?
grazia calannaSin da bambina, amo osservare, ascoltare, comprendere, raccontare… La passione per la scrittura mi accompagna da sempre e con essa il desiderio di dare voce a quanti necessitano di attenzione. È forse per questo che ho scelto, avevo 17 anni, di praticare l’attività giornalistica. Inizialmente la mia passione era orientata in direzione dell’inchiesta, la più alta espressione della professione giornalistica. Il termine mutuato dal lessico giudiziario rivela, appunto, l’intenzione di andare oltre le fonti ordinarie, introducendo l’idea che il lavoro del giornalista possa essere affine o parallelo a quello del magistrato. Organizzata in una serie di pezzi, anche a più mani, ha (dovrebbe avere) il carattere di una ricerca o di un’indagine che mira a scoprire verità nascoste. Dunque, è un simbolo di ciò che si considera l’ideale della professione: cercare la verità, attraverso la ricostruzione e l’interpretazione. Lo spirito di un paese si riflette nella stampa che genera. I giornali, quasi come fossero uno specchio, rivelano conflitti di potere, tensioni sociali, cultura e tradizioni di una nazione. Il giornalista interpreta, divenendo egli stesso attore del mondo che racconta. Più di uno studioso della comunicazione ha sostenuto che la stampa mette in rapporto i centri vitali della società e che, attraverso l’informazione, favorisce la nascita e la crescita della coscienza nazionale. Se la sua forza aiuta la democrazia, la sua debolezza segnala il cattivo stato di salute delle istituzioni e dell’intero corpo sociale. Non a caso, in qualsiasi cambiamento di regime diventa strategico il controllo dei mezzi di informazione. Come hanno presto sottolineato i massmediologi, il pubblico, oggi, viene sommerso, in poche ore, da una quantità di notizie pari a quelle che fino a qualche lustro fa, riceveva in un anno; non è difficile capire che il potere non può (e non intende) rinunciare all’uso dei media. Col tempo, per ragioni facilmente intuibili, ho scelto di orientare i miei scritti verso altre passioni compendiando (e con soddisfazione, devo dire) tipologie testuali quali la recensione (artistica e letteraria) e l’intervista (a poeti e scrittori contemporanei).
l’EstroVerso: cos’è e come nasce questo progetto?
l’EstroVerso è un periodico culturale, consultabile al sito www.lestroverso.it, nato nel 2007 edito da EstroLab, associazione culturale fondata con l’amorevole sostegno del Commendatore Nello Calì. Un nome, l’EstroVerso, per un duplice significato: l’inventiva del verso, pensiamo alla forza creativa della parola, e l’estroversione connaturata al desiderio di condividere, in libertà, due passioni indissolubili: scrittura e lettura. l’EstroVerso, che rivolge peculiare attenzione alle riflessioni critiche, alla letteratura, all’arte e alla poesia, è aperto a un pubblico esteso, senza limiti d’età, tant’è che tra le proprie pagine ospita (anche) la coloratissima rubrica Biblioteca Birichina, dilettevoli consigli di lettura per i più piccoli a cura della scrittrice Anna Baccelliere. Lo studioso Matteo M. Vecchio de l’EstroVerso, riscattando e incoraggiando il nostro impegno in direzione di una crescita “sana” e scevra da qualsivoglia condizionamento, ha scritto: “teneramente raffinato, a livello anche editoriale. Per non parlare del livello dei contenuti. Un periodico letterario finalmente estraneo alle consolidate logiche curiali”.
Che ruolo ricopri all’interno della rivista? Qual è la vostra struttura organizzativa?
Sin dal 2007, ricopro il ruolo di Direttore Responsabile de l’EstroVerso. Il mio lavoro, da circa tre anni, è affiancato dal poeta e critico letterario Luigi Carotenuto, Segretario di Redazione del periodico. La nostra struttura organizzativa compendia due tipologie di collaborazioni (permanenti e variabili), come si evince anche dalle rubriche. Così, tra le collaborazioni consolidate, piace ricordare: L’Antro della Pizia, narrazioni inedite della scrittrice sarda Savina Dolores Massa; L’Aforisma dello scrittore genovese Claudio Bagnasco; La Recensione di Sandro De Fazi; l’étranger, approfondimenti critici su poesia e poeti stranieri di Davide Zizza; La riva sinistra, traduzioni e commenti critici a testi poetici di autori prevalentemente in lingua inglese e francese a cura di Andrea Giampietro; EscogitArte, accattivanti imbeccate artistiche di Elisa Toscano; Notturni, sguardi critici di Luigi Taibbi; Fotoracconto di Massimiliano Raciti. E, ancora, volendo fare un’incompleta mappatura delle partecipative penne, ricordiamo, oltreché le originali interviste della scrittrice veneta Gabriella Bertizzolo, da Milano, le invitanti riflessioni del poeta Fabrizio Bernini; da Viterbo, Daniele Cencelli con policrome nozioni storico-artistiche; da Catania, Raffaella Belfiore, con urgenti e pungenti temi di attualità. Altre rubriche, poi, come, per fare qualche esempio, l’Editore Racconta, Allo specchio di un quesito, Inediti d’Autore, l’Autore Racconta e Parola d’Autore, hanno visto e vedono, di volta in volta, il contributo di scrittori, poeti, giornalisti e artisti da tutta Italia e anche dall’estero (pensiamo agli originali contributi della scrittrice e pittrice bilingue Alessandra Brisotto, da Norimberga) che, generosamente, scelgono di collaborare offrendo “con grazia” idee in gemme di scritti preziosi. Rubriche a parte, posto che è impossibile citare tutti gli autori ai quali esprimo la nostra più sincera gratitudine, ringrazio per i recenti contributi Cristina Annino, Rosario Leotta, Luciana Riommi, Giovanni Baldaccini, Dario Borso, Alessandra Carnaroli, Kareen De Martin Pinter, Rita Pacilio, Adriana Gloria Marigo, Sonia Lambertini, Paolo Aldrovandi, Francesca Taibbi e Diego Caiazzo.
Carta o web? Il dilemma di chi si avvicina all’editoria periodica.
Scrivere è una passione che mi accompagna sin da bambina. Considero curiosità e ascolto rispettivamente mamma e papà della scrittura che procede, il più delle volte sorprendendoci, libera da qualsivoglia disegno. La scrittura è perlustrazione rivolta, in egual modo, con l’energica spinta genitoriale, verso noi stessi, verso l’altro, verso l’ambiente che abitiamo o, per meglio dire, che ci abita. È un percorso mai pago, contraddistinto (implicitamente o impensabilmente rispetto ai temi narrati) dall’atavico desiderio di rispondere, in vita, al più oscuro degli interrogativi. “Seppellite il mio cuore nell’era del cartaceo”, lo ha scritto Sebastiano Vassalli in un articolo densissimo (Corriere della Sera, 7 luglio 2013) che focalizza l’attenzione sull’imminente tramonto (epocale) di un’epoca, ovvero quella distinta dall’uso (diffusissimo) della carta. Ci apprestiamo a varcare la soglia dell’era inodore, stampigliata da rapporti cristallizzati nel perimetro di algide stanze appestate da masse non quantificate di radiazioni. Auspico (sogno), a dispetto della travolgente rivoluzione tecnologica, la possibilità di inebriarsi, sfogliando un libro, dell’odore (inconfondibile) sprigionato dalle singole pagine. Ma poi, pensando unicamente alla scrittura, a prescindere dai contenitori, mi dico (confortandomi) che l’unica cosa realmente importante è riuscire a preservarne i contenuti. Per dirla con Gino Roncaglia, autore de La quarta rivoluzione,Niente paura. Continueremo a scrivere e leggere libri fatti di parole, al di là dei supporti che utilizzeremo”.
Puoi raccontarci come avviene il lavoro di selezione degli autori da pubblicare?
l’EstroVerso ha lo sguardo proteso con curiosità verso la poesia senza limiti di genere, scuole o indirizzi poetici. In generale, ciò che più interessa sono l’originalità stilistica, la capacità emozionale e comunicativa di coloro che scrivono. Detto questo, soffermandoci sulla poesia alla quale (grazie soprattutto al lavoro certosino di Luigi Carotenuto) dedichiamo ampio spazio, piace riportare, condividendone appieno il pensiero, le parole di Daniela Marcheschi, quando dice che come ogni altra attività artistica la poesia richiede una lunga fedeltà, un lungo servizio d’amore, “è distillazione dell’esperienza, è ripensamento della cultura, è fuggire la mutevolezza fatua dei tempi per riattingere al tempo. È questo lavoro durissimo, questo ineludibile qualcosa di più, che distingue un poeta degno del nome da chi si diletta della poesia o la pratica, più o meno consciamente, come terapia delle proprie nevrosi, come sfogo delle proprie frustrazioni”.
Per finire, ti chiediamo qualche riflessione sulla “buona poesia”: cosa significa oggi scrivere, scegliere e leggere la poesia?
Chi scrive versi non dimentica, come elabora Jorge Luis Borges in Obra poética”, che ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente cosa gli è stato concesso di scrivere. Altrettanto non dovrebbe dimenticare, quando (se) si occupa di recensirli (come nel mio caso), l’incombente rischio di travisare, stravolgere, deragliare; non dovrebbe dimenticare l’umiltà; non dovrebbe dimenticare il rispetto per coloro che (al di là del “talento”, più o meno riconoscibile o inculcabile) si esprimono con la verità – l’odore ne imprime distintamente le pagine (anche quelle virtuali) – affidando alla precarietà del verbo il proprio frangibile sentire. Chi è il poeta? È un prescelto celeste al servizio della poesia destinato a cogliere (con singolari sensibilità e perspicacia) un dettato prodigioso nella misura della sua stessa imperscrutabilità. In pochissimi, poi, avranno il coraggio di avvicinarsi con scrupolo, con coscienza, nel tentativo di cercare o cercarsi tra le righe. Penso alla poesia “Due righe” di Bartolo Cattafi (Tra cosa e cosa / due righe buttate là sulla pagina / ma chi si prende la briga / di passarci su il dito / di farsi morsicare da due aspidi / nell’estate pietrosa?). Quali i poeti amati? Di ognuno c’è sempre qualcosa che piace, di alcuni c’è quel qualcosa in più che ce li fa amare pienamente. Mi riferisco, volendo fare un esempio, alla poetessa Antonia Pozzi (alla quale ho dedicato un editoriale che riporto in parte, su l’EstroVerso) e ai suoi versi inazzurrati dal candore della fede. Versi ardimentosi, ardenti, amabili, abbaglianti. Un etere liricamente compiuto quello dell’imperitura poetessa, giovane genitrice di un’estesa (moderna) riflessione sui misteri esistenziali, le fatali commistioni tra letizia e dolenza, la cecità dell’incomprensione sebbene, «come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita», il tempo scivoli via impietoso. Cosa significa leggere poesia? Eugenio Montale, nel 1975, in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per le Lettere, intervenne porgendo una distinzione essenziale tra la poesia che scorta il clamore del tempo, vive nell’effimero della cultura di massa acustica e visiva, e la poesia che sorge quasi per miracolo, vive ignorata, ma contiene in sé la capacità di imbalsamare tutta un’epoca, restituendone l’essenza attraverso la virtù del linguaggio. Questa premessa per dire che è proprio sulla poesia onesta, pedagoga, libera da qualsivoglia schiavitù, capace di serbare un intero tempo storico che bisognerebbe soffermarsi per osservare che la poesia (semplicemente) è la vita. Leggerla, pertanto, significa accostarsi all’esistenza imparando a riconoscere e riconoscersi nello sguardo altrui.

lunedì 23 settembre 2013

 
XLIV Premio Brancati, segnalazione speciale per “Era Farsi” di Margherita Rimi
 
“La bambina non sapeva di essere / bambina // La storia dentro a un pugno / scambiata tutta per errore. Così / Come poteva essere da capo. Come / per aggirare il mondo”. Versi di Margherita Rimi, autrice di “Era farsi”, Autoantologia (1974 – 2011), edizioni Marsilio, vincitrice, in seno al XLIV Premio Brancati Zafferana, della segnalazione speciale della giuria “Stefano Giovanardi”. “Il dettato della Rimi è nitido nel suo articolarsi per anafore, interazioni e parallelismi di ogni genere, ma anche per montaggi fra giustapposizioni e incroci analogici: “E – sono un libro chiuso / E – rimango chiuso / i grandi hanno grandissimo da fare” (In salvo)”, scrive la prefatrice Daniela Marcheschi. “Sono doppiamente soddisfatta perché questa segnalazione arriva da un prestigioso premio della mia Regione e per l’intestazione a Giovanardi, scomparso da poco, studioso di letteratura e profondo conoscitore della poesia – dichiara la Rimi”. L’autrice agrigentina, neuropsichiatra infantile, svolge un’intensa attività finalizzata alla cura e alla tutela di fanciullezza e adolescenza. Versificando, offre riverberi dedicati, oltreché all’infanzia (nelle sezioni “I tempi dei bambini” e “Le voci dei bambini”), a molteplici personaggi tra i quali Pirandello, Sciascia, la poetessa rumena Ana Blandiana, la scrittrice ungherese Agota Kristof. E, ancora, alla creatività della lingua siciliana, con le liriche in vernacolo, nonché, amabilmente, alla propria terra, “A volte a confondersi dietro uno stesso passo / ci siamo orientanti // Odore di terra / Tanta acqua è caduta // Più forte la pausa / e negli spostamenti il tempo.” (Eccezione la natura). “I bambini – aggiunge la Rimi -, sanno rappresentare quello che vivono: le paure, il dolore, la gioia e non solo con le parole, anche con i disegni, con il gioco, con il corpo. L’adulto ha l’obbligo di farsene carico. La parola è necessaria per comunicare, per “curare”, ma, altrettanto, sono necessarie tutte le altre forme di linguaggio non verbale per comprendere e aiutare i piccoli. I miei ricordi sono legati ai loro volti, alla sofferenza, alle storie raccontate nei loro disegni. E, ancora, alle loro parole imperfette, alle parole di una lingua irregolare. Alla loro concreta semplicità. Era giusto che la poesia accogliesse le loro voci”. La parola è una cosa profonda nella quale, per l’uomo d’intelletto, sono nascoste inesauribili ricchezze”. Un pensiero di D’Annunzio per chiederle, assodato il ruolo pregnante del verbo nei suoi versi, una riflessione. “Le parole autentiche ci toccano nel profondo, ci avvicinano alla bellezza. Influenzano i nostri comportamenti emotivi, i nostri pensieri. È questo quello che fa la parola poetica, ci migliora, ci rende più sensibili, più pensanti. La parola, quando il poeta la scrive, non muore ma trova una sua conclusione”.
Era Farsi
Ai piedi del letto il tempo non passava
Era farsi grande raccontare una storia
E la storia non era più una storia
era farsi padre
Il suo disegno non era farsi grande
non era orizzonte la sua mano
Il dolore era farsi carta
farsi carta i troppi desideri
Il suo mondo era grande ed impreciso
la forma del suo cranio
una farfalla.
l'EstroVerso 21.09.2013 http://www.lestroverso.it/?p=4896

 
LA SICILIA pag. Cultura "Nella mia poesia vengono accolte le voci dei bimbi"
lettura critica di Grazia Calanna
 

mercoledì 11 settembre 2013


LUCIANNA ARGENTINO, AUTRICE DEL POEMA «L’OSPITE INDOCILE»

«Fare poesia è dare voce a chi non ne ha»

di Grazia Calanna su LA SICILIA pag. CULTURA del 7.09.2013

 

“Il suono tiepido della luce / scorre lungo i rami carichi / e cade e si frantuma, / fa certo il provvisorio / mentre la bellezza si fa scrittura / e non ne muore”. Versi germogliati da un’ininterrotta meditazione, immensa, come “felici scorribande del vento”, riconoscente, come inchiostro che “scorre / e si rapprende come lava / fa fertile il foglio / fa anse all’ansia / spicca il vuoto alle cornici / ai cornicioni chiede la vertigine / per il salto nel pieno della vita”, fulgida, come “l’infanzia con le altalene a filare il tempo”. Parliamo del poema “L’ospite indocile” di Lucianna Argentino, Passigli Editori, con nota critica di Anna Maria Farabbi che ha colto, focalizzandola, l’andatura interiore della poetessa romana. “Ho cominciato a scrivere durante l’adolescenza quando la vita cominciava ad avere orizzonti sempre più vasti e mi procurava un tremore interiore misto a fascino. La poesia è stata una compagna nel viaggio che mi accingevo a iniziare. Compagna e viaggio stesso e anche casa: un vero e proprio luogo da abitare. Vivo la poesia come un esercizio spirituale, teso ad indagare il senso spirituale dell’esistenza e il suo mistero, come un incessante dialogo con me stessa e con tutto ciò che mi circonda. Complici carta e penna e quell’attenzione creatrice tanto cara a Simone Weil, sono sempre pronta ad accogliere la grazia che la parola poetica riesce a estrarre da ogni istante - dichiara la Argentino”. Perno della versificazione il valore essenziale della scrittura (“concupiscente e casta”) che balza di foglio in petto come fosse brezza, “Scrivere è togliere spazio al male, / è addomesticare la paura / che torna selvatica a ogni respiro / è tentativo di conoscere / se nella radice dell’albero dimorano / necessità e libertà, / se sul tuo tronco è la misura / di altezza e statura, / se nella sua chioma nidificano / verità e verosimiglianza, / adesso che so stare sotto la sua ombra / lo svantaggio umano”, “Ora mi siedo e scrivo / da dentro questa fonte mai sazia / dove a volte il silenzio ha la meglio / ma di nuovo mi feconda la vita / mi seduce la scrittura”. Il verbo alligna il pensiero (“in confidenza con l’eterno”), la parola “irrompe / e sgorga necessaria come tutto il bene / che in questo momento è compiuto / nel basso della terra / e si misura ad altezza d’uomo”. “La poesia  è essere in relazione con l’intero creato. Fare poesia per me è ascoltare e dare voce a chi o a ciò che non ne ha. È prossimità. È il lavoro silenzioso e oscuro delle radici e quello luminoso e alto della luce: entrambi “invisibili” ma fondamentali per la vita dell’albero - aggiunge l’autrice -. Questo libro è una riflessione sulla vita, sulla sua irripetibile preziosità, sulla forza della parola poetica capace di estrarre l’eterno da ogni attimo e dove carnale e spirituale coincidono per un sentire che conduce nelle profondità dell’essere”.

GRAZIA CALANNA
 

 

lunedì 2 settembre 2013


 “GLI IMPERFETTI SONO GENTE BIZZARRA” DI RITA PACILIO

Lo spazio inespugnabile dell’essere sorella

 

di GRAZIA CALANNA su LA SICILIA del 28.08.2013

“I suoi amici hanno le ali sotto / la maglietta / alcuni hanno la testa nei sotterranei / e con le mani consegnano fogne // come fossero baci convulsi / abbracci miti, girano / la lingua di un sorriso, implorano / risposte alla sorte e alla pietà. / Hanno un amore negli occhi / un presentimento di attesa / una polvere pronta a sparare / una febbre. // Noi dispiaciuti li guardiamo enigma senza soluzione”. Versi dall’intesa tonalità affettiva, versi di Rita Pacilio tratti da “Gli imperfetti sono gente bizzarra”, edizioni La Vita Felice. «Questo - dichiara la Pacilio - è un libro che mi è costato uno scavo interiore. Ho denudato la mia rintracciabile fisicità per allinearmi allo schema dello sdoppiamento mentale e di coscienza al fine di poter osservare, con il terzo occhio, la libertà del vagabondare plurimo e legittimo della mente umana di fronte allo straordinario e difficile mondo dell’incoscienza ». Lo sguardo della poetessa (amorevolmente) indaga e si allunga fino all’ignoto di un cosmo narrato nella sua peculiare complessità, “La prigione di mio fratello / è oracolo timido / probabile occhio spia”. Un cosmo percorso da struggente tenerezza, “Il giardino l’hanno messo sul tetto / il custode è il lungo cipresso / si intreccia l’edera tra le caviglie / negli occhi vaga la collina viola”. «Un dolente e splendente diario, personalissimo – sottolinea il prefatore, Davide Rondoni - dove la forza dei versi fila, tesse e spacca la mormorazione in cui pure restano raccolti, pronunciati dal quel luogo inespugnabile che è lo spazio dell’essere sorella».

Una serie complessa di anelli (inscindibili), liriche poderose che, interpretandone prudentemente il pensiero, i sibili (“Ho parlato al tuo corpo fraterno/ conficcato nella pioggia che lava/ sollevato ruggiti sfibrati/ per pietrificarne i momenti”), donano la parola a coloro (“Li ho visti assorti, smarriti, soli. / Portavano negli occhi i rovi del mondo / con decenza e con il pungolo nel cuore”) che ne sono provvisti. «Il vero poeta - aggiunge la Pacilio - ha il compito di educare gli esseri umani alla rivelazione dell’essenza del possibile. La poesia deve avere il compito fondamentale di comunicare, come cassa di risonanza, che il codice simbolico del mondo è un lascito di un varco creativo e benefico delle vicende umane che universalmente riguardano le singole esistenze. La poesia nasce dalla realtà per poi disgiungersene in modo semplice, quasi come per creare una seconda coscienza, per erigere una distanza che discenda dalle cose stesse. Il poeta deve essere visionario e attento conoscitore degli innesti inquieti che, implacabile, la vita riproduce con spontaneità, senza debolezza. Per me la poesia resta motivo di introspezione del mondo».

 

sabato 24 agosto 2013


Intervista alla poetessa Franca Mancinelli  
La scrittura è la nostra impronta, la traccia fossile del nostro passaggio sulla terra”
 di Grazia Calanna
 
La bellezza, come la coscienza, non mente. E, in coscienza, i versi di Franca Mancinelli sono belli di quella bellezza lieve propria dell’azzurro che “torna a coprire la terra”. Liriche protese verso l’oltre terreno dove “cucchiaio nel sonno, il corpo / raccoglie la notte”. Versi verso la nudità dell’essere, con occhi che al buio vedono più che al chiarore, con occhi che nel sonno scrutano “le tracce dell’uomo che ieri abitava i tuoi stessi vestiti”. Versi confidenti, adiacenti l’orizzonte, “Torneranno a tracciarsi le strade / alle scarpe che vanno / confermando i confini / di cose tra cose”. Versi - parliamo di “Pasta Madre”, Nino Aragno Editore - che, come scrive il prefatore Milo De Angelis, “possono avere una forza oracolare, la sapienza di chi è stato per tutto il suo tempo a contatto con la morte”. 
Quali sono i ricordi legati alla tua prima poesia?
Non ricordo di preciso quale sia stata e quando l’abbia scritta. Ad ogni modo è una delle poesie che sono poi andate a comporre Oltre la giostra, la prima sezione del mio primo libro, Mala kruna. Per anni, subito dopo l’infanzia, per tutta l’adolescenza, ho scritto d’istinto, ad occhi chiusi, cercando a tentoni di capire dove mi trovavo, quello che mi stava accadendo e soprattutto cercando una porta per uscire, per andarmene. Quaderni, taccuini, foglietti, sono andati a riempire due scatole che conservo nell’armadio. A volte li rileggevo come guardando vecchie foto, riavvolgendo il filmino della mia vita, senza che potessi credere davvero in loro, perché la vita continuava a travolgermi, in un modo assoluto, prepotente, molto più di quelle parole che venivano tardi, registrando qualche traccia, una breve scia. Poi, nei primi anni dell’Università, una dolorosa esperienza mi ha portato con le “spalle al muro”: un fucile puntato alla fronte, e ho aperto gli occhi. Ho ritrovato la scrittura ed era qualcosa di diverso. Ad un tratto ero al di là di un masso insormontabile che mi aveva sbarrato la strada. Ero passata oltre, senza sapere come.
Quali i poeti che ami e, più in generale, quali le letture rilevanti per la tua formazione?
Ci sono libri che ci aspettano sulla strada, per dirci qualcosa di noi, della direzione che dobbiamo prendere, di quello che dobbiamo attraversare. Come nelle fiabe i messaggi affidati alla voce di una strega, di un animale parlante, nascosti sotto una pietra, oppure proprio sotto i nostri occhi, sull’etichetta di una bottiglia, tra gli ingredienti di un dolce. Queste voci che mi hanno parlato, che mi hanno direzionato negli intrichi del bosco, sono Cesare Pavese, Fernando Pessoa, Rainer Maria Rilke, Leopardi, Dostoevskij, e naturalmente Dante. Le loro parole sono entrate trasformandomi, rimpicciolendomi più di un neonato, facendomi crescere più di un adulto, fino a schiacciare la fronte sul soffitto. Ho copiato per anni in un mio quaderno le frasi dei loro libri, da buona amanuense. Nei movimenti della mano sul foglio, sentivo le loro parole filtrare lentamente, immerse nel gesto che le faceva rivivere. Silenziose, sulla pagina, nella mia grafia, erano come riconquistate, erano mie per un momento più lungo della lettura. Poi entravano nella mia memoria, camminando per le strade serali, con un foglietto stropicciato che di tanto in tanto riportavo agli occhi mentre sillabavo nella mente o a labbra socchiuse. È stato il mio modo di ruminare.
«La vera poesia è il contrario della solitudine, proprio perché mira a rendere più intenso il rapporto con l'altro. L'artista solitario, rinchiudendosi nella propria differenza, finisce per non sopportare più gli altri. La vicinanza di altri poeti è invece sempre benefica alla poesia. Io ne ho beneficiato tutta la vita». Con Yves Bonnefoy per chiederti: il poeta, la poesia, oggigiorno, cosa abbisognano?
Sono d’accordo con Bonnefoy: sicuramente dell’altro, degli altri. Ho intitolato il mio secondo libro Pasta madre, pensando proprio anche a questo fondamentale bisogno. La pasta madre infatti è una materia che ha un’inesauribile potenziale di generazione, di vita, ed allo stesso tempo è fragilissima. Se non viene nutrita da qualcuno, muore, se non viene accolta, resta incompiuta, senza forma. La scrittura per me è qualcosa di molto simile: può essere madre di tante cose, portandole alla luce, ma è solo nel rapporto con l’altro, nel suo spazio di ascolto, che lievita un senso. Credo che la poesia per mantenersi in vita abbia bisogno di sentirsi parte di una comunità, di rimescolarsi nei gesti quotidiani, di impastarsi in questa antica e nuova materia della nostra lingua, oggi più che mai bisognosa di essere nutrita, non lasciata morire.
“ho scritto quello che volevo dirti / sotto le palpebre. Domani / appena le riapro leggerai”. Con i tuoi versi per chiederti qual è, del tuo “Pasta Madre”, il messaggio che consideri cardine per il lettore? Cosa auspichi possa, scorrendo lo sguardo, scegliere di custodire?
Non ho scritto questo libro con un progetto. Non sono mai riuscita a farlo fino ad ora. Non c’è quindi un contenuto o un messaggio che intendevo trasmettere. Sento molto la poesia come una traccia lasciata dal nostro corpo, con tutto il suo peso e la sua quotidiana lotta per mantenersi in vita, per ridare senso a gesti semplicissimi, che ci sostengono, come il preparare il cibo, il mangiare, l’abbandonarsi al sonno. La scrittura è la nostra impronta, la traccia fossile del nostro passaggio sulla terra. Nel lasciarla, non possiamo sapere cosa conteniamo, di cosa siamo portatori, che cosa abbiamo accolto. Con il tempo però, riguardando questi segni, possiamo riconoscere qualcosa di noi, di quello che ci ha abitato. E dal nostro profilo scorgere indietro quello dell’uomo e forse ancora più indietro quello della specie. Posso dire di avere riconosciuto alcune linee, alcuni contorni: nella parte centrale del libro, ad esempio, c’è la scia lasciata dal passaggio di un amore, o del suo fantasma, e poi quella di uno sguardo sulla maternità biologica, osservata come un miracolo, ma anche quella della scrittura che porta ad essere madre di se stessi, a prendersi cura della parte più fragile di noi, sollevandoci da terra, come fa una gatta che porta il figlio nella cuccia. Mi lascio scrivere, mi affido alla scrittura, ma la aspetto anche con inquietudine e timore, come un’infiltrazione che inizia a premere, a rigare il soffitto, frantumando quello che prima sembrava conosciuto, familiare. In questo libro ho vissuto la poesia come una materia originaria, umile, fatta di cose semplicissime come acqua e farina (voce e silenzio, bianco e nero). Mi auguro che chi transita attraverso queste pagine l’accolga, la contenga, la porti a compimento.
Ti porgo un quesito usufruendo (ancora) dei tuoi versi: “con la costanza degli insetti / torniamo contro questa / luce che non si apre, che ci spezza // quanto ancora busseremo / al vetro che divide / l’ossigeno dal cuore?”
La prima risposta che mi viene è “per sempre” o, perlomeno, ancora per molto. Questo “bussare” è legato al battito vitale, alla pulsazione del sangue. Ma è anche l’immagine di un’agonia, di una lotta per liberarsi. Mi è molto cara l’immagine degli insetti imprigionati in casa, che sbattono contro i vetri, cercando di tornare da dove sono venuti. Vanno verso la luce, ma con una sorta di cecità costante, autolesiva. Li ritrovi esausti, rovesciati sul dorso, inerti, sul davanzale. In questo scontro riconosco la scrittura, il suo battere contro un limite invalicabile che, pure, continua a richiamarci, come una promessa di una dimensione diversa, di un’aria finalmente nostra, liberata. Mi chiedo quante forze abbiamo ancora per ritentare, per resistere a quest’urto. Forse gran parte del nostro scrivere si è arreso ad aggirarsi dentro stanze di aria consumata, tra mobili e soprammobili e, astutamente (o forse saggiamente), non si dirige contro i vetri, non si spezza per seguire il richiamo della luce. 
Scegli alcuni dei tuoi versi per salutare i lettori.
Scelgo due poesie molto brevi che appartengono all’ultima sequenza del libro. Le ho scelte perché siamo nella stagione delle spiagge affollate, dei corpi allineati al sole e anche perché ripropongono il tema della scrittura-corpo di cui ti ho parlato. In entrambi i testi questo paesaggio marino evoca scenari inquietanti, prossimi alla morte: “dischiusi all’equilibrio”, soffermandosi sui corpi abbandonati all’acqua che, come si dice quando galleggiano sul dorso, “fanno il morto” (qui letteralmente); “trafigge il sole polsi abbandonati”, ritraendo invece questa sorta di rottura del gioco che ci regge nella quotidianità, e questo essiccamento che cerchiamo, a cui ci esponiamo. In entrambi alla fine quello che resta è un’immagine nitida di corpi, stagliati sulla sabbia o sull’asfalto. La nostra scrittura appunto, il nostro fossile.
 
dischiusi all’equilibrio, hanno creduto  
al varo e alla deriva
nel moto continuo. Anche i gabbiani  
passano su di loro senza grida.    
Così dopo un incidente  
restano sull’asfalto frutti intatti.
 
**
 
trafigge il sole polsi abbandonati.
Semivivi o cadaveri
sparsi come fiammiferi
di una torre crollata.
Ora la pelle prende fuoco
perché del sangue resti impronta secca.
 
 
 
(l’Estroverso n. 3 / 2013 su www.lestroveros.it – LA SICILIA versione ridotta, “Liriche protese verso l’oltre terreno”, 19.08.203)
 

lunedì 12 agosto 2013


IL SAGGIO DI ERICA DONZELLA SULLA POETESSA
Alda Merini, simbiosi di pensiero e d’ispirazione
di Grazia Calanna
(LA SICILIA CULTURA 13.07.2013)
 
“I poeti si riconoscono palmo a palmo col loro silenzio. La poesia sfianca, stanca, sconvolge, tormenta e poi scende a cullare il pianto della solitudine, con la sua potenza affilata, con un’innocenza di madre che asciuga il trucco sbavato della maschera che ogni essere umano indossa quotidianamente”. Parole di Erica Donzella, riflessioni  giovevoli alla comprensione di una scelta  qual è stata quella di intitolare un saggio alla “ragazzetta milanese”, come la definì Pier Paolo Pasolini, che, sottolinea, ricordandolo, la Donzella, “ha il piglio superbo di una piccola ape furibonda, che si nutre del nettare della vita, spesso amaro del dolore, ma pur sempre degno d’inchiostro e confessione; colei che canta la sua follia con la vertigine poetica dell’amore incondizionato per il mondo viscido e distratto che la confina”. Parliamo di “Alda Merini. L’amore in un Dio Lontano”, densissimo saggio, edizioni Prova d’Autore, che dalla vita, alle ricchissima produzione letteraria, scandaglia “versi che trasudano pietà e misericordia, solitudine e malattia, affanno e sospensione, vergogna e seduzione”. Il versificare per Alda Merini, scrive la Donzella, rappresenta (anche) la misura con la quale si relaziona al proprio corpo, “il nostro corpo è anche la misura della parola”. Ed è soprattutto l’antagonismo tra corpo e soffio vitale che ha un ruolo sostanziale nella stesura delle sue liriche: “È solo sospirando la carne che si arriva alla parola. Il corpo è l’anima raffinata”. Leggendo soccorrono i versi della stessa Donzella (tratti da “Pyro”, fortunato libro d’esordio), “Maledetta sia la mia carne / Maledetto il sapore che scivola su di te / Maledetto l’attimo del tuo sguardo / E la gravità / Che mi fece orbitare / Intorno al tuo sesso”, che in assonanza con la Merini plasma canti dai toni (tuoni) passionali, autentici, prorompenti. Una sinossi scientifico-lirica dell’universo meriniano, come evidenzia il curatore letterario, Mario Grasso. Un omaggio, arricchito dalle interviste (lucenti testimonianze) a Giuliano Grittini e Cosimo Daminao Damato, in memoria di una voce memorabile (decisamente fuori dal coro) del secondo Novecento letterario italiano. “Ad Alda Merini si arriva per innamoramento. Aveva ragione Damato, regista e amico della poetessa, a confessarmi tale segreto, bisbigliato dietro una cornetta telefonica in una notte di marzo. Alda Merini è la poesia, la più alta nell’eco della parola, della metafora, del dolore preso a schiaffi coi versi, cantati verso un dio lontano, così tanto presente, eppure distante. Alda Merini si ama. Ad Alda Merini si arriva per congiunzione naturale del vivere e del respirare. È simbiosi di pensiero e d’ispirazione, è madre di silenzio che avvolge e culla il poeta, che lo consola dagli abissi ancestrali dei tormenti”.  
GRAZIA CALANNA

mercoledì 10 luglio 2013


POESIA. RESTIVO NEI PAESAGGI DELL’ANIMA

di Grazia Calanna

Il pensiero “contraddisse e si contraddisse” formulato per se stesso da Sciascia, concittadino di Calogero Restivo, anch’egli di Racalmuto, sovviene leggendo “Poesie di volti e memorie” (Prova d’Autore). Il poeta “immerso solitario e coraggioso in un mare senza fondo” propone al lettore un cammino costante condotto al ritmo intenso della franchezza e, con essa connaturate, di gagliarde contraddizioni. Del resto, sosteneva Hegel, l’antinomia è la regola del vero. Calogero traccia, assieme a quelli esteriori (e amatissimi), i paesaggi dell’anima screziandone i contorni, “Non importa se seduto sull’aia a contare le stelle, il vento all’improvviso snocciola il rosario degli urli e sbatte in faccia la sabbia prelevata dal deserto che al di là del mare, disteso come gigante annoiato, immoto e solenne, aspetta che il tempo, in dune allineate come pieghe di ventaglio, ne ridisegni forme e contorni”. Offre, leggiamo nella prefazione di Mario Grasso, “un canto lirico modulato con voce sommessa, sincera e disinibita”. Conduce un itinerario ininterrotto (mai pago) diversificato dalle ansietà del vivere e, similmente, da una florida sequenza di “propositi e speranze”. Nel ciclico gioco dell’alternanza delle stagioni, il silenzio (“Vestirò di silenzio le mie ansie, le promesse mancate, i giuramenti al chiaro di luna, perché le parole sono come l’aria che le porta lontano e cancella un timido alito di vento”) si contrappone alla parola (“Parliamo delle ansie e dei pericoli corsi, di modi scoperti di inventare i domani, che ogni giorno si facevano ieri spesi in inutili attese. Non sapevamo di essere felici”), l’oblio (“I miei ricordi sono casolari di campagna abbandonati, da cui i ladri hanno rimosso porte e finestre lasciando solo desolazione”) ai ricordi (“Saltellano come marionette mosse dal puparo, che tiene i fili e fa avanzare ora l’una ora l’altra. Sono immagini che vengono dal passato, perché la memoria le resuscita”), la rassegnazione (“Affiorano rimpianti assieme a ricordi, che non cambiano quanto scritto nel libro degli assegnati destini”) alla speranza (“Ho visto un uomo correre nella sera, inseguiva i tramonti per prolungare all’infinito il giorno e vivere un’eterna gioventù senza domani”), l’ipotesi (“Se fossi poeta metterei le ali ai bambini poveri, per vederli volteggiare liberi nel cielo, e non giocare nel fango di lividi inverni capricciosi”) alla certezza (“Sono partiti nel buio della notte, le scarpe appese alle spalla, come bisacce ai fianchi dei muli, per non pagare il prezzo del vivere quotidiano con complici versi servili”), incessantemente, come il chiarore al calar del sole. “Scrivo - svela l’autore di questo tesoretto della memoria -, per sentire l’anima per vedere i colori per sentirne i contorni, per sfiorarla e sentire che è vero che la sua pelle è velluto come di pesca, e ha forma tonda come il mondo”.
GRAZIA CALANNA




 

domenica 5 maggio 2013


 


Sulla strada per Leobschütz di Daniele Santoro (La vita felice)

nota critica di Grazia Calanna  

 

 

“Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono”. Una riflessione di Heidegger per introdurre Sulla strada per Leobschütz di Daniele Santoro (La Vita Felice). Un libro in versi dalla forza dirompente. Del resto, con un pensiero di David Le Breton che, crediamo, colga bene il senso di questo esemplare lavoro, “il dolore inerisce alla vita come contrappunto che dà pienezza al fervore d'esistere”. Un libro, un edificio, con le pareti cementificate dalla memoria di un tempo (finito) che ha segnato il tempo (infinito) del quale non possiamo dimenticare le azioni, gli effetti. Il genocidio nazista, l’assunto. “Santoro si è documentato per scrivere, e riporta i testi a cui si è rifatto […] Documentarsi per scrivere versi? Certo, questa è la sfida, la novità, la risposta etica all’insensatezza di tanto egocentrico e fatuo verseggiare di oggi”, scrive Giuseppe Conte nella prefazione. Santoro ci afferra, con lui percorriamo lesti la strada che ci conduce dentro al campo di sterminio. Internati. “Regola prima. Me lo porti al muro / ovviamente già nudo. La divisa / la sistemi da parte col berretto / (servirà per i prossimi arrivati). // Regola due. Lo tieni per l’orecchio / se per il braccio è inutile, se fa resistenza / insomma che non s’agiti, se sbaglio mira / poco mi importa, non faccio differenza”. Allineati. “sanno ormai il destino che li aspetta / infatti a malincuore lasciano la fila / tremano messi in disparte guardano / noi che facciamo un passo avanti a / chiudere la riga”. Spezzati. “anche i bambini aspettavano la morte / intanto che aeravano le Camere  / avevano i piedini congelati / e sotto le percosse delle guardie / le mamme si inchinavano a staccarglieli da terra / … / poi insieme entravano tenendosi per mano”. Dimentichi. “voi non sapete un uomo che significhi / sfinito, sfilare nudo a passo militare / il piede congelato nel suo zoccolo di legno”.  L’aria è artica, sebbene “la calura / che spacca pure i sassi delle lacrime”. È stridente, “cantava / stringendoselo al petto, ancora strofinandogli / la punta del nasino bianco / come la neve”. È lama tagliente, scarnificante, “masticò feroce / feroce come l’animale, gli occhi scarni / e spalancati fissi su quel moribondo che / giaceva a terra”. Squarcio nel petto, lo sguardo ingabbiato sui “corpi ancora caldi accatastati / verso l’ultimo respiro”. E se da un lato la vita si è fatta più dura e minacciosa, dall’altro lato si è fatta più ricca, perché non si hanno pretese e ogni cosa buona diventa appunto un dono insperato, che riempie di riconoscenza, annotava la Hillesum maestra (e testimone) di meraviglia che sembra affiorare dai versi corpulenti di Santoro. Dopo l’approdo al vertice estremo del dolore, feroci stermini, torture fisiche e psichiche, ciniche efferatezze (“i sadici annunciavano alle loro vittime  nel campo di concentramento: domani ti snoderai nel cielo come fumo da quel camino”, sovviene Adorno), soprusi intessuti nell’intera trama vitale, versi luminosi (la poesia vive, anche, dopo Auschwitz, e finché c’è vita) irrompono,  consentono di rialzarci aggrappando lo sguardo alla volta celeste per goderne il fulgore, “a liberarci dall’angoscia è giusto una misura di stupore, / una bellezza che dia senso, amico, come quella sera / che puntavamo al cielo gli occhi e ci sorprese / il pieno delle stelle immenso il firmamento”.
 

 

 

(l’EstroVerso  maggio – luglio 2013 www.lestrvoerso.it)

sabato 20 aprile 2013

POESIA - Taibbi la parola testimone del vivere
LA SICILIA pag. CULTURA di GRAZIA CALANNA 18.04.203
 
“Si può sopportare qualsiasi verità, per quanto distruttrice sia, purché surroghi tutto, e abbia la stessa vitalità della speranza alla quale si è sostituita”. La riflessione di Emil Cioran (raccolta da L'inconveniente di essere nati, 1973), sintetizza bene il messaggio cardine di “Schegge”, silloge di Francesca Taibbi (Edizioni Prova d’Autore). Siamo in presenza di una poesia squisitamente essenziale che fluisce obbedendo con cura ad un’urgenza che diviene parola e testimone del nostro vivere quotidiano, “Siamo storpi verecondi / che accarezzano / volubili / le ripide altezze delle loro indecisioni. / Corpi contorti / formalmente compiuti / inseguono, / perversi / dolorosi rifiuti”, versifica in “Dolci Natali”. L’autrice scrive di corpi sopraffatti “dai turni della vita” (“Riflessi”) e, aprendosi alla verità del proprio più intimo sentire, guarda con gli occhi della coscienza alle inestimabili infermità sociali additando, insieme, l’inerzia delle vittime e l’astuzia degli artefici, “Imbonitori di sogni in scatola / gettano negli occhi / felicità surrogate / che celano / voragini, abissi”, leggiamo in “Accumulo ergo sum”. Uno sguardo volto al presente, memore di un trascorso indelebile e vitale nelle stanze luminose del ricordo, “nei suoi / sfilacciati / sorrisi, / i miei piccoli / passi, / svelti e imprecisi. // I guizzi del fuoco / le risa argentine / le corse / gli scherzi / le monetine / che ruotano / mosse / da dita / possenti”, (“Il bottone”). Un libro impreziosito dai disegni di Janie giovane artista catanese che con le proprie opere, contraddistinte dal tratto corposo e accogliente, fotografa il proprio tempo denunciandone, con toni garbati e malinconici, le smisurate contraddizioni. Quelle stesse incoerenze indicate a chiari toni dalla Taibbi che, come in “Mercanti di parole”, lapidaria, versifica: “Addestrati cultori dell’arte / vanagloriosi e tronfi / pronunciano voti a mezza bocca / con la restante / consegnano giudizi al tempio / dietro lauto compenso”. “La poesia - dichiara la Taibbi -, è libero fluire di emozioni e interpretazioni istintive. Oggi è importante fare poesia per combattere l’atrofismo culturale e più semplicemente conoscitivo. La poesia è probabilmente la più grande forma di condivisione esistente in ambito letterario e sociale, una tra le più concrete forme di espressione artistica. La sua concretezza (e compiutezza) risiede proprio nel suo essere incompleta, poiché spesso il non detto, il celato, fanno sì che il pensiero dell’autore, che può apparire fallace, (manchevole e incompleto), possa essere arricchito e integrato dall’interpretazione del lettore. In poesia, la monodia espressiva, la singola voce del poeta, che è l’unica che si intravede nei caratteri graficamente ordinati del testo scritto, in realtà diviene espressione del policromo pensiero sociale”.
GRAZIA CALANNA
 
 
 
 

venerdì 8 marzo 2013

MARCO SAYA
I versi partitura scandiscono le trame
La Sicilia, 07.03.2013 di Grazia Calanna
“La passione per la scrittura nasce da lontano, con la musica, ricordo le prime lezioni di chitarra a quattordici anni. Lo studio dei testi di alcuni celebri cantautori americani è stato lo spunto per iniziare a buttare giù qualche pensiero e così lo scrivere è diventato parte integrante della mia partitura musicale”. Riflessioni di Marco Saya, editore e autore di “Chiacchiericcio”, malmenante (e rapente) raccolta poetica, “cinque muniti per dirvi di non ascoltare / codeste cassandre puttane / travestite da lauree con master a seguito, / figlie di un capitalismo abortito / e di una democrazia stuprata. […] cinque minuti per riprendervi quella dignità / persa nella sabbia fine di qualche deserto”. Converrebbe Cioran, esistono solo le cose che abbiamo scoperto da soli, le altre sono tutte chiacchiere. Saya, cosciente della “precarietà della parola”, addita la menzogna, “verità tramandata da previi accordi”, figlia dell’umanità intrappolata nel cerchio perpetuo della reiterazione, “ricordo quei convogli / che, allora, avevano / un’unica destinazione”. Plasma versi agili, fotogrammi verbali di un paese popolato da lacchè, opinionisti senza opinioni, morti sul lavoro, precari in cerca di dignità, in cui “la povertà precipita / fracassandosi sull’asfalto / cosparso da compresse di xanax”. Versi acuti, “mi domando se, oggi, l’idea abbisogni / di un nuovo re-styling / ma gli orchestrali della mente / dirigono solo metà emisfero / perché a corto di dipendenti”, di sociale (mordace) interpellanza, “ri-apprendere come sfregare le pietre focaie / potrebbe essere il miglior inizio / per dar fuoco a questo presente?”. “In Chiacchiericcio - aggiunge Saya -, i testi prendono forma nella loro eterna contraddizione come una partitura dove il tempo non è mai stabilito a priori ma è ogni singola misura a scandirne le trame, sempre diverse ma vicine perché vogliono capire, cercare di prevenire le misure successive. Questo richiede una totale simbiosi con il proprio reale, un mondo “work in progress” che costruisce il racconto, lo sviluppa, lo articola, lo canta e così la poesia deve essere vicina al tempo che si vive, a questo nuovo millennio che, tra una tecnologia esasperata e i nostri passi che faticosamente arrancano, aspetta di essere rappresentato in tutta la sua complessità emotiva, nevrotica e, aggiungo, piuttosto confusa. Mi piace osservare, descrivere, quasi come un cronista armato di ironia, ma anche di tanta amarezza, il caos del nostro tempo, partendo, appunto, dalle “notizie”, dai pregiudizi, dalle ingiustizie sociali, dai singoli oggetti, feticci divenuti una nostra seconda pelle, dal nostro essere in questo mondo senza una vera identità, una sorta di cloni che attraversano questa vita in attesa di un alfabeto/linguaggio che possa essere condiviso”.
 
GRAZIA CALANNA

 
“SOLOMINUSCOLASCRITTURA” DI SILVIA ROSA
 
Versi taciturni, parole «carne dell’anima»
LA SICILIA 14.02.2013 di Grazia Calanna
 
“Il linguaggio è uno specchio della mente in un senso profondo e significativo; è un prodotto dell’intelligenza umana, ricreato ex novo in ogni individuo mediante operazioni che si situano ben oltre il limite della volontà e della consapevolezza”. Leggendo “SoloMinuscolaScrittura” di Silvia Rosa, edito da “La Vita Felice”, prefato da Giorgio Bàrberi Squarotti, sovviene la riflessione di Chomsky. Siamo in presenza di una prosa poetica che non sfugge il silenzio, bensì lo accoglie in policroma (faconda) pienezza. Taciturne, “le parole sono carne tenera dell’anima, l’alfabeto di occhi mani labbra che siamo, eterni a svanire”. Con verità cristallina, “a denti stretti”, l’autrice partecipa il lettore del proprio “precipitare nell’ansa nuda di parole”. Indaga le geografie del tempo, pur (talvolta) assente da se stessa, instancabile, pur (talvolta) stanca dell’immobilità che la “preme contro i minuti sbeccati taglienti dei giorni che scorrono in fretta, e si sbriciolano”. Sveste i propri dubbi esistenziali, “bolo indigesto che ulcera la coscienza”. Sul “candore delle pagine” adagia desideri cosmici, riconoscibili, anche quando taciuti, “vorrei che ci scambiassimo le fiabe, e le dolcezze che teniamo nascoste al mondo intero, […], il tempo di un sospiro di piacere che tremi il cuore e frani cielo e terra fino all’origine di (un) noi - possibile”. Ebbene, cardine è l’amore, che, insegna Feuerbach, è passione, contrassegno della vita, senza il quale, ricorda semplicemente l’autrice, “i giorni (e le notti) precipitano nel vuoto”. “Scrivo per raccontare il mondo, visto coi miei occhi, a me e a gli altri, come si raccontano le fiabe perché aiutino a superare la notte e a guardare senza (troppa) paura le ombre, e poi scoprire che le ombre nascono dalla luce che si muove intorno ai nostri passi - spiega la Rosa -. Scrivo per necessità, non vorrei scrivere, scrivo con difficoltà e fatica, le parole molte volte non ci sono, devo cercarle e non ho voglia e poi però penso che non ho niente oltre alle parole che (non) possiedo, che il senso è tutto lì, nelle parole, ma che le parole non “significano” nulla, perciò bisogna metterle insieme con cura come le tessere di un mosaico e inventare un disegno per dirsi e per dire, e offrirlo in dono a chi vorrà leggerne tutte le sfumature e le imperfezioni. “SoloMinuscolaScrittura" nasce da un corpus di riflessioni di questo tipo rielaborate, poi, in una sorta di racconto. Se c'è un'uscita possibile da quel labirinto di non senso e solitudine e vuoto in cui a volte (ci) si (s)finisce, per me - conclude la Rosa - è proprio nello spazio di quel cammino, una parola dopo l'altra tesa come una mano in una carezza in un gesto di resa in un saluto, a indicare il mondo e a pronunciarlo sulla punta della lingua, come fosse una preghiera”.
GRAZIA CALANNA



 

 

“LA VITA CHIARA” DI MARIA GRAZIA CALANDRONE

«La poesia, un patto di fratellanza»
La Sicilia, 11.01.2013 intervista di Grazia Calanna

venerdì 11 gennaio 2013


“LA VITA CHIARA” DI MARIA GRAZIA CALANDRONE

«La poesia, un patto di fratellanza»

LA SICILIA 11.01.2013

Intervista di GRAZIA CALANNA

 

“Un nodo nero mi protegge il petto: / il mio tributo al volo delle rondini / forma una solitudine / dove non sono sola”. Versi sostanziali, partecipati, gemmati da una inventiva debordante che attinge all’esistenza, ora narrata ora narrante, “arcobaleno / retto da un orizzonte”. Versi di Maria Grazia Calandrone, tratti da “La vita chiara”, Transeuropa Edizioni. Un libro in sezioni, quattro come gli elementi naturali, fondamento (immacolato) dell’essere: in “Acqua” scorgiamo Persefone e la pittura di Piero della Francesca; in “Fuoco” affiorano i dialoghi con il poeta mistico Hafez, le invocazioni di Maria; in “Terra” risaltano storia e leggende gotiche.  Chiude “Aria” col poemetto “Alla sua ultima musa”, (per la voce di Sonia Bergamasco).  

- Quali i ricordi legati al suo primo componimento in versi?

Posso riferire i primi due guizzi metaforici, suscitarono in me un entusiasmo per la libertà e la possibilità della mente in relazione alla parola – ovvero lo spontaneo insorgere del “metodo”. All’inizio di marzo del 1971 Roma si svegliò sotto un’abbondante nevicata. Io vidi i vasi dei gerani alla finestra colmi di neve come un’offerta della natura, un mondo di panna. Poi sentii provenire dalla strada lo stridere dei freni dei mezzi pubblici e nella mente si aprì una bianca foresta surreale piena di barriti di “elefanti meccanici”. Non sono mai più uscita da quella gioia associativa: mi accorsi che le parole possedevano una loro immaginazione e potevano ricreare una realtà parallela e abitabile. Certo, in quel caso vennero suscitate da un evento ingenuo ed eccezionale, che facilmente poteva colpire l’immaginazione di una bambina, ma con l’allenamento possiamo riuscire a vedere un altro mondo, “più vero del vero”, anche sulla scrivania dove sediamo tutte le mattine da trent’anni.

- Quali i poeti indispensabili?

I poeti sono tutti indispensabili. Possiamo fare a meno dei facitori di versi che abusano della poesia per parlare di sé. Ma in quel caso non si tratta di poeti, i quali dovrebbero dirci di un mondo comune fuori dal comune.

- “Fino a che siamo vivi produciamo rumore e misericordia / ma quel poco di bene solleva / dal nostro petto tutta la fermezza della terra”, i suoi versi per chiedere se la poesia può (in che modo) spianare “la strada al silenzio sotto i passi del mondo”.

La poesia, tanto più è alta, tanto più ha la funzione di ricordarci il patto che ci lega gli uni agli altri, che è un patto di compassione e fratellanza. Siamo i soli viventi uniti dalla coscienza della propria morte e rifuggiamo tutti come possiamo da questa evidenza. Basterebbe ricordare questo per mitigarci gli uni verso gli altri. In questo senso comunismo e cristianesimo sono opere della immaginazione poetica. Sul tema della morte il cristianesimo pecca di un eccesso di simbologia infantile, ma se ne possono facilmente comprendere le ragioni, nel tentativo di divulgare un patto di bontà naturale che nella società umana sembra ogni giorno più straordinario.  

- “Il vero poeta anela a chiarezza. Egli ha coscienza che la parola è difficile, ma, e se ne dispera, la rende fatalmente più oscura, più intrappolata nei significati che, cercando di nudarla e di coprirla di luce, moltiplica”. Con Ungaretti per chiederle di meditare insieme sulle ipotetiche (attuali) “incombenze” del poeta.

I poeti sono delle sentinelle, fanno veglia sulla lingua, che vuol dire far veglia sulla libertà della immaginazione, sulla comune profondità sentimentale che è la compassione. Sarebbe buono che tutti ci sentissimo costantemente bendisposti verso la bellezza e la bontà del mondo come siamo ad esempio dopo aver letto Leopardi, che sparge sul male naturale la tanta vitalità e bellezza delle sue parole.

- Scelga un passo da “La vita chiara” per salutare i lettori.

Propongo il testo posto ad apertura di libro, per motivi che credo siano chiarissimi: “Se io potessi aprirei il mio petto per farvi vedere / come gli organi se ne stiano spaiati, uccelli acquatici / al colmo / di un tetto, come tutto il mio petto sia un campo aperto / dopo la rimozione degli alberi / e un passaggio di unità cinofile / e quale unico congegno espressivo / tra animale e uomo /sia lo stesso ripetere che sì, che sì...”.

GRAZIA CALANNA