lunedì 27 febbraio 2012

Ho rubato la pioggia (Elisa Ruotolo, nottetempo)
di GRAZIA CALANNA


Parafrasando Victor Hugo viene da dire che la libertà principia dal titolo (ironico) e procede, assieme alla verità, nell’intimo segreto di un sogno individuale. “Dalla scrittura - sottolinea Elisa Ruotolo autrice di “Ho rubato la pioggia” (nottetempo) -, non mi aspetto più di quanto non le abbia già preso finora: la serenità di una stanza silenziosa eppure affollata, il privilegio di un tempo radicalmente mio, la possibilità, estremamente ambiziosa, di causare un piccolo fiat lux con il fiammifero che porto continuamente in tasca e che accarezzo con la punta delle dita. Credo che uno scrittore dovrebbe anzitutto imparare questo: aspettare il momento giusto, la storia giusta, la parete adatta per ruvidità e consistenza e solo lì strofinare la capocchia del suo piccolo fiammifero”. Intenso, elegante, figurato, lo stile della giovane letterata avvince e cinge in un abbraccio lucente che effonde fiduciosa attesa. Tre narrazioni legate (forse) dalla figura materna (presente finanche assente). “Molto leggenda” è il protagonista del primo racconto, un ragazzino, “mai avevo pensato che la mia vita potesse stare tutta lì, in un dare di piede contro un pallone”, strappato alla rassicurante piattezza familiare dal proprio talento calcistico, dall’abbaglio di popolarità, dalla vanità di un padre fiero e speranzoso in forte contrasto con una moglie inflessibile e certa che senza sudore c’è poco da illudersi, “non mi diede una mano, uno sguardo, non un segno qualunque che mi facesse sperare che forse forse poteva anche darsi che stessi facendo la cosa giusta”. Nel secondo racconto colpiscono, assieme,  un’audace donna che non si rassegna alla scomparsa del figlio, “un giorno dopo l’altro, non aveva pensato che a quello: al caldo della controra, al vapore ondulato che saliva dal basalto irregolare e alla strada deserta del primo pomeriggio, quella da cui Matteo non tornava”, e due bizzarre sorelle “cariche di barattoli di conserve, col cuore pieno del loro amore infantile che non conosce mezze misure”. Nell’ultimo la voce narrante è quella di un ragazzino senza madre, “c’è stato un tempo che facevo il conto delle ore sperando che arrivasse presto quella in cui l’avrei vista scomparire dai depositi dei nostri cassetti, dalle parole indelicate della gente, quella in cui avrebbe smesso di torturarmi la circolazione”, quieto (acuto) osservatore accudito da Silvia, “con la disperazione premuta forte in ogni gesto”. Storie apparentemente semplici che, a prescindere dall’ambientazione, hanno il pregio di appartenerci per quella sapiente combinazione di fattori (vitali) i quali ci spingono a credere (fermamente) in quel “qualcosa di buono” che, a prescindere dai frutti, appartiene a ciascun uomo e alla sua vicenda. 

sabato 18 febbraio 2012

Prenditi cura di me (Sellerio)
di GRAZIA CALANNA

La sveglia rigorosa (alle 6 del mattino dopo notti insonni), le birre con gli amici (7 euro l’una), l’Alluvione (rivive l’anno  1966), l’elisoccorso (urge comporre il 118), la rata della polizza assicurativa (800 euro impietosi), il ripristino del motore del furgone (5.000 euro al meccanico), l’ennesimo indebitamento (suppergiù 23.000 euro) e, in tasca, solo 85 euro. Numeri, cifre, quantità, scadenze, assillanti, dolenti come marchi (arroventati) bollano l’intera vicenda di Stefano, quarantenne fiorentino, apparente protagonista di “Prenditi cura di me”, agghiacciante racconto di Francesco Recami (Sellerio). Uno stile talmente fluido da farci dimenticare di stare leggendo un romanzo, quasi come fossimo affacciati alla finestra della nostra coscienza tant’è che certe storie, seppure non le abbiamo sperimentate personalmente, le conosciamo, ci toccano o ci hanno toccato per mezzo degli altri, i nostri simili, più o meno cari. Principale interprete, dunque, la solitudine, algida, minacciosa, vendicativa, finanche mentecatta (acuta simulatrice). Figlia dell’isolamento al quale, egoisti, costringiamo e - unicuique suum - saremo costretti.

giovedì 9 febbraio 2012

L’apprendimento elementare (Mondadori)
GRAZIA CALANNA

La prodigiosità del quotidiano in un policromo ventaglio visivo. Acquerellare l’odierno con primitivi pennelli, arditezze distillate dall’occhio illibato di un veterano fanciullo. “Ciò che siamo è invulnerabile”. Narrarsi narrando, denudandosi, affrancandosi dall’artica prigionia dell’incomprensione. A principiare dal titolo, “L’apprendimento elementare”, edizioni Mondadori,  distintamente, emergono due spunti inerenti le liriche di Fabrizio Bernini. Uno tematico, l’apprendimento imprescindibile, l’altro stilistico, l’ironia capillare. Imparare, nel senso primigenio di apprendere coll’intelletto, è tutt’altro che elementare. Il poeta anela l’apertura di un valico, “solitudine immaginaria”, percorre a ritroso il proprio personalissimo tratto temporale delineando, tra amarognole contentezze e malinconiche panacee, particolari, “ho messo le dita nella poca neve che ormai non cade da anni e mi è sembrato di bucare un corpo inutile, come il nostro”, e luoghi dell’anima, “il tetto di casa mia è il tetto della scuola. Visto da quassù sembra un cappello dove il sole sbatte scivola sugli spioventi, sgocciola nell’ombra”, distintivi di un itinerario che diviene universale. Lo sconquasso del tempo sul filo reciso della prevedibilità, “così diversa è la vita se il caso ti sceglie”, ciondola, avanti indietro, sull’onda corta di fiati orchestrati dalla dubbia clemenza del vento, “qui tutto ormai è prospettiva”. La solitudine si specchia “sui sassi lucidi” e il dolore, segreto come lo è “ogni posto”, fermenta “con le lacrime morse nei denti”. Invero, “comprendere è impensabile”, ciascuno “è freccia e bersaglio”. Giovinezza, “ti penso da questi luoghi con la schiena sul ciliegio e l’acacia”, e senescenza, “parla ai suoi anni, messi in ordine nelle pelle scalpellata”, l’una al cospetto dell’altra, identiche, se non nell’esperienza, nel rovesciamento, il vecchio “credeva alle piante e ai fiori”, il ragazzo “li avrebbe pestati quei fiori”. In un mondo asfissiato dall’asfalto, dalla “plastica in bocca e tra i denti”, l’autore osserva l’evidenza dell’eguaglianza di fronte al bisogno, “come bestie, torniamo a casa di sera”, e, con essa, l’impellenza del riparo, “tutto andrebbe conservato, così come la memoria tiene ogni cosa senza farcelo sapere”. Pagine trasudanti, “visione d’immenso”. L’inquietudine esistenziale, “grama battaglia contro il feltro del cuore”. L’alienazione della reiterazione, scordando “quello che andrò a rifare”. L’emancipazione dal dubbio, “il mistero non c’è mai stato, non cercatelo più. Tutto sta in questa parabola breve, ognuno sente per l’ognuno che è”. Accenti (acuti) sulla facoltà di  fantasticare. Salvifico incanto vitale, a ciascuno il proprio “bivio di pensieri”. Immaginare “corpi dietro le pareti, fiati a tempo dentro al sonno, le coperte tiepide, tutti i particolari di un sogno, le vere frenesie di ogni coscienza”.   

(La Sicilia Cultura 09.02.2012 – www.lasicilia.it)

martedì 7 febbraio 2012

Mistero Doloroso (Adelphi)

di GRAZIA CALANNA

L’evidenza dell’amore che tacitamente s’insinua nell’animo dei prescelti senza preavviso, senza  discriminazioni. L’amore espressivo che, pur imbavagliato, suo malgrado, fiata. Punge, indistintamente, coscienza e intelletto. “Un dolore caro” che nell’andirivieni incessante mostra “il turchino scuro” del firmamento. Una storia, quella narrata da Anna Maria Ortese nel suo “Mistero Doloroso”, edizioni Adelphi, ambientata, sul finire del ‘700 in quel di Napoli, città “molto più piccola di quanto lo sia ora, perduta sotto un cielo di una luminosità di pietra preziosa, raccolta entro un silenzio incantato, interrotto solo dal plo-plo delle ruote delle carrozze signorili, o dal canto melodioso di qualche venditore di limonate”. Protagonisti la piccola Florida, “creatura così perfetta di lineamenti, così bianca di pelle e nera di capelli, così preziosa e fine, da sembrare irreale”, figlia dell’infaticabile e zelante sarta Fertì, e il principe Cirillo, probabile erede al trono di Spagna, “ragazzo scarno, di media statura, senza nessun tratto notevole, salvo il colore scuro del volto e la tristezza degli occhi”. Una narrazione pervasa da sensazioni di “sogno, di disperazione e magnificenza insieme” che trae la propria forza dalla semplicità di piccoli accadimenti, estatiche sospensioni, vicendevoli batticuori, e, congiuntamente, il tepore inconsueto del “loro riverbero leggero”.

domenica 5 febbraio 2012

Attorno a questo mio corpo (Hacca Edizioni)

di GRAZIA CALANNA
«Attorno a questo mio corpo » curato da Laura Pacelli, Maria Francesca Papi e Fabio Pierangeli, è un libro, Hacca Edizioni, d’eloquente corposità germogliato dalla considerazione che «corpo e letteratura sono specchi di un “io” singolare, immerso in un tempo che lascia segni indelebili, in uno spazio che impone le proprie misure». Ornato dalle raffigurazioni di Mauro Maraschi, imperativo del volume, scoprire i profili, i gesti e individuare la presenza del corpo nella nostra produzione letteraria. Con attenzione riguardo al tempo storico,  al contesto culturale, ai mezzi di diffusione delle immagini, la ricerca, com’è facile intuire dal sottotitolo dell’opera «ritratti e autoritratti degli scrittori della letteratura italiana», è stata condotta, dai numerosi studiosi coinvolti, secondo fonti (ritrattistica, carteggi, documentari, testimonianze, intimi ricordi) e criteri diversificati. Un libro incuriosente grazie al quale, giusto per fare qualche esempio, scopriremo che l’amore per la letteratura di Dario Bellezza, “persona singolare, viva, anche quando si negava nel niente e nella morte”,  “andava al di là del suo ego ebbro e traballante”; che, paradossalmente, una “malformazione cerebrale congenita” cagionò la dipartita di Italo Calvino, “uno dei migliori cervelli delle nostre generazioni”; che, ponendosi “in ascolto con il proprio corpo”, Giorgio Caproni,  si sporgeva “verso la vita con la volontà di assaporare le sue offerte di pienezza nell’immediatezza del loro prospettarsi”. Dante Alighieri? “Non era certo un omaccione, ma nemmeno quella specie di hobbit raccontato dal Boccaccio”, insomma “non era male, via. Da cui un certo successo con le donne…”. Nonostante le molteplici descrizioni, l’indole del Manzoni resta “enigmatica, introversa, difficilmente decifrabile”; mentre di Eugenio Montale, colui per il quale “la più vera ragione è di chi tace”, intriga la riservatezza, il volto inviolabile, il consueto ritrarsi “di fronte allo specchio”. Tuttavia, “la sua non è mai una fuga”. Lo sapevate? Elsa Morante era ingurgitata dal “forte attaccamento alla giovinezza del corpo”, talmente viscerale da lievitare con l’andar del tempo, spaventandola al punto da strapparle ogni  godimento, “riservato - pensava - soltanto a chi possiede bellezza”. Nondimeno, ingenerosa la sorte di Federico De Roberto marchiata «al pari di cruente stimmate nel corpo martoriato e nelle menti  spossate dei suoi morbosi “vicerè”». E, ancora, non ultimo (a), delizioso (a), la “Passeggiata con Ungaretti” di Serena Maffìa. La formula, accattivante, è quella diaristica. Così, di sorpresa, si ha l’impressione di sentirlo parlare il poeta: “Poeta?! No, mai. Vagabondo! Naufrago di sogni e d’illusioni”; “Mia madre si chiama Maria. Come la Madonna. … forse è per questo che mi volle chiamare Giuseppe…”.
Manna e miele, ferro e fuoco (Mondadori)

di GRAZIA CALANNA

“La neonata era bella come un cespuglio di rose di san Giovanni… fu subito evidente che sarebbe diventata una ragazza aggraziata e flessuosa, uno di quei papaveri che d’estate a piano Pomo si piegano nel vento”. Romilda, vellutata protagonista di “Manna e miele, ferro e fuoco”, nuova fatica letteraria, Mondadori, di Giuseppina Torregrossa, accolta con vibrante entusiasmo dal tramandato rito propiziatorio, “la manna tra le gambe della neonata”, paleserà sin dalle primissime movenze  l’unicità del proprio essere. “Un nugolo di api le ronzava attorno alla testa, si infilava tra i capelli lucidi, le camminava sulle braccia, come se volesse decorare quel piccolo corpo esile, pieno di grazia”. Fanciulla, svezzata dagli insegnamenti genitoriali di Maricchia e  Alfonso, diversi e complementari, intenti a impartire dolcezza, passione, saggezza, delicatezza, autocontrollo e potere, indomabile nell’animo, “se è vero che già alla nascita i caratteri sono ben definiti, il compito dei genitori si riduce a ben poca cosa”.  Divenuta donna, prematuramente, suo malgrado, si imbatterà in un uomo arido, don Francesco, barone di Ventimiglia, “aveva avuto molto e mancava di tutto”, che arbitrariamente, forte delle proprie fortuite ricchezze, la prenotò in sposa ch’era ignara bambina. “Quel matrimonio era l’emblema di un’altra unione avvenuta a forza dieci anni prima, quella tra Nord e Sud”. Con tenacia, temprata da lunghe pause silenziose, come incurante della pesantezza del tempo che corre, riuscirà, in terra di Sicilia - “sempre sul punto di insorgere, non riconoscendosi in quel governo centrale che aveva nominato come amministratori locali i nemici di Garibaldi” -, a non perdere di vista, fino a ricongiungervisi, il proprio emancipato cammino.  Un testo, a tratti lirico, “la luce del mattino aveva perso la sfrontatezza dell’estate e penetrava tra le foglie degli alberi con discrezione”, scritto con rassicurante schiettezza che, senza pomposità, non trascura di bacchettare l’umane debolezze.

venerdì 3 febbraio 2012


Non io poeta
di Valeria Spallino (Prova d’Autore)

“Tavolozze di alfabeti”, rievocano onirici, eppur tangibili, “frammenti” di un passato sempre nuovo, odierno “presagio di nascita” in un mondo da frugare “a piene mani” per rischiararne i sentieri cupi, “ancor privi di braccia e di stelle”. “Franchezza intransigente” e, “fra i geroglifici dell’attesa”, l’inquietudine aliena del dubbio, “speranze ancora da inventare tra i riquadri del desiderio”. Parliamo della silloge “Non io poeta” di Valeria Spallino, edizioni Prova d’Autore. Liriche, ora elegiache, “dolore ha il peso di scarpe logore nella neve”, “lacrime di rugiada su petali di cuore spaginati”, ora gioconde, “la gioia è volteggio di piuma non lascia orma se non traccia lieve da pettirosso sulla sabbia”, pervase dal palpabile desiderio di ricercare, congiuntamente, verità, amore e bellezza. “La poesia - risalta la Spallino -è contraddizione di moltitudine che mira all’unità. È un dialogare con se stessi e, nel contempo, diventare altro da sé, rivelarsi e superarsi al medesimo istante. È alchimia. Il tentativo impossibile, necessario, di raccontare il non esprimibile, di rendere visibile l’invisibile, procedendo per intuizione, per piccoli lampi alla meta, pennellature. Poesia è ascolto, accostamento, suggerimento, traduzione. Un insondabile segreto, un vuoto che necessita d’essere colmato, dal poeta al lettore, attraverso la realtà, fino all’universo”. L’autrice si esprime per cardini concettuali densi di locuzioni allegoriche e fantasiose, “gli uomini infrangono lo specchio del cielo, recidono un fiore, sgomentano l’universo”, “cespugli d’ombra irrompono il manto sottile dell’erba, caparbia fra le pietre, e un fremito leggero increspa pensieri appena timbrati”, “baratteremo scommesse di stagioni perdute, gusteremo l’infinito”. Risalta, anche beffardamente, l’amore per l’istintività dell’arte nelle più svariate accezioni, “parola mia d’architetto (no, non porto cravattino), il ragno è il miglior professionista, in lui ideazione arguta e manovalanza, a prova di qualsivoglia certificato”. E, dona, guizzante, l’omaggio a Federico Garcia Lorca, “segreti sottovento stringono mani a pontili tardivi di stelle come buchi, cercherò l’alito che sostiene tutte le cose”. Un canto in versi sublimante immagini, “solitaria memoria”, che affondano radici nelle propaggini epocali, “il tempo misura lo scalpello degli anni poi disordina lo spazio”. Appurata, tra le funzioni della poesia, quella di “far strada verso noi stessi”, s’alza, “nel fragore dell’alba”, un richiamo alla presa di coscienza, via di salvezza per un astro in cui “balzi di carta avanzano stampa di cronaca sterile che non redime, incapace com’è la coscienza di avanzare”.
GRAZIA CALANNA

mercoledì 1 febbraio 2012

Da Mody Dick all’Orsa Bianca
di Anna Maria Ortese (Adelphi)

Scritti suadenti, distinti da raffinatezza, levità, trasporto, dolcezza, umorismo, esplorazione, amore, come quello per la lettura che si rivela “fra le passioni più belle della vita, spazio del diletto e del riposo dell’anima e insieme della costruzione del senso del suo essere nel mondo e del suo starvi da scrittrice”, abbracciano, dal 1939 al 1994, un lungo periodo di intensa attività giornalistica.  Parliamo del libro, curato da Monica Farnetti, “Da Mody Dick all’Orsa Bianca” di Anna Maria Ortese, edito da Adelphi, che si schiude con una deliziosa narrazione inerente il “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”, il giovane favoloso, colui che “ebbe e ci diede il senso dello spazio, del tempo, e, con esso, lo sgomento della nostra piccolezza, l’affannato interrogare, il ripiegarsi muto”. Straordinari i capitoli intitolati: a Cechov, leggere una sua pagina, riflette l’autrice romana “è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita”; alla ragazzina di Amsterdam, Anna Frank, all’innata “esigenza di verità”, alla capacità di “resistenza al male” - dovunque esso sia -  e al suo “diario esemplare”, custode di “un mondo che dura due anni, ma è eterno, perché è di tutti i tempi e di tutti i luoghi”; a Eduardo De Filippo, “inimitabile, incantevole evocatore di tutto un mondo e un costume in apparenza piacevole, in realtà cupo e disperato, un mondo e un costume che si dibattono ai margini della vita moderna, della ragione umana, costruttiva, senza comprenderla né esserne compresi”; a Dino Buzzati, a “quella sua facoltà più che umana, misteriosa e tranquilla, di avvertire, nella solitudine, la solitudine degli altri; di carpire, solo in apparenza immobile, la paura e il dolore del mondo”.  Ancora, singolari gli spunti offerti dalle letture del  “Ritrattino del Dandy” nel quale si ricorda Baudelaire, colui che “ha lasciato una immagine del dandy superiore a quella suggerita da qualsiasi altro scrittore”, e di “Cristo e il tempo” dove è  rammentato che “siamo appena l’altra parte dell’Universo, dov’è posto il sigillo, siamo il primo Enigma, che aspetta in eterno - senza porre vere domande - una risposta già venuta da duemila anni, e che il silenzio, e l’atrocità del silenzio, vanno ora mutando in giudizio”. Nel contempo esilarante, caustico e meditativo  “Il piacere di scrivere” che, schiettamente, premessa l’italianissima (pretesa) vocazione, bacchetta “ogni abitante-scrittore” che se ne sta sul proprio “manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’altro: e se quello è più colmo, sono occhiate, lacrime…”. Un modo per dire che dovremmo cessare di stendere soliloqui per piacere a noi stessi o, peggio, agli altri. Un’esortazione a rispolverare il valore autentico della letteratura,  “un richiamo, un grido che turbi, una parola  che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze”.               
Grazia Calanna


LA VOLTA POETICA DELL’UNIVERSO DI LUIGI CAROTENUTO
Un testimone di un’epoca dubbia

Camaleontico, saldo, spontaneo, realista, beffardo, sognatore, provocatorio, fiducioso. È, al di là degli “steccati”, l’esteso richiamo poetico di Luigi Carotenuto, voce singolare per  sapienza introspettiva e letteraria. Un giovane autore, sebbene cosciente dell’altrui preferenze, “mi vorrebbero muto come un sasso”, diviene testimone di un’epoca dubbia. Versi arcobalenanti, come sfumature di un “lungoprato fiorito fiorente”, sbocciano, ora dal desiderio, “non si lasci espugnare la vita”, ora dal disincanto, “nel gioco delle parti si risolve la giornata”. Roghi intimisti, “m’infransi contro gli scogli / della terra e piansi”, rischiarano, riscaldano, uno sguardo, proteso sul “perenne protervo protetto carnevale”, derisorio, “insepolcrato il pensiero / i vivi celebrano i morti”, caustico, “avidi / poteste lucrare nell’aere / se solo aveste / l’immunità celeste”, speranzoso, “i bambini non scendono a patti col mondo / hanno tasche colme di rivoluzioni colorate”, prova tangibile dell’urgenza della poesia, balsamo sostanziale per  “anime senza posa”. Parole pedagoghe incedono, incidono l’animo come fossero sberle officinali desiderose di vivificare uomini-fantocci, “in vetrina”. Viandanti “senza lascito memoriale”, “accademici rivoluzionari / alchimisti del nulla / malinconici pre festino”, vite avulse allo stupore. Parole indocili addosso al becero perbenismo dell’apparenza, all’illusione di un cosmo finito “a portata di dito”. Parole di un amore nitido, incondizionato, per un “girotondo” infinito di bimbi ai quali dedica il proprio salvifico “Vi porto via”.  Un testo, edito da Prova d’Autore, prefato da Gaetano Vincenzo Vicari che sottolinea: “Persistenti e incisive immagini mentali costellano la volta poetica dell’universo del Carotenuto, che riesce a piegare la parola al suo fulgente pensiero, focalizzando i nodi esistenziali dell’uomo. Il poeta ha la forza mentale e il rigore intellettuale per adagiare, con una saggia padronanza dei mezzi linguistici, la parola poetica nello scrigno stagionato della conoscenza”.
GRAZIA CALANNA
Il cinema brucia e illumina
di Andrea Zanzotto (Marsilio)

“«ciack!» - Federico -, è il tuo circo che erutta e deflagra con gusto, vi piroetta e saetta la festa che maschere appioppa o strappa: possa ognuno della folla che alla tua giacca s’aggrappa conoscere almeno se ha la parte del Bianco o dell’Augusto!”. Versi di Andrea Zanzotto onorano l’amico  Fellini, bulbilli di una riverberante raccolta, “Il cinema che brucia e illumina”, edizioni Marsilio, che compendia articoli, lettere, liriche e pagine inedite dell’imperituro umanista veneto intitolati al diletto cosmo cinematografico. “Non poteva restare insensibile al fenomeno linguistico e sociale che il cinema così pervasivo nella vita del Novecento, su cui ha depositato tracce profonde, proprio un poeta che quel secolo ha attraversato e per il quale l’atto di vedere è all’origine di molti suoi versi”, sottolinea Luciano De Giusti, curatore della selezione. Suggestive memorie quelle dell’autore che, in “Ipotesi intorno a «La città delle donne»”, secondo una linea di continuità felliniana, “il cinema in quanto seduzione irresistibile è qualche cosa di femminile, nella sua essenza”, chiarisce che “parlare del cinema è parlare della donna. La donna-cinema seduce perché rivela, come in un angosciante e dolcissimo titillamento, quella parte di irrealtà che è in ognuno, e che è tale solo per poter aprire il nulla di ciascuno ad una cosmica comunità”. Altrettanto, seducenti, lo sono quelle legate al lungometraggio «E la nave va», “sospeso tra angoscia e disincanto, tragicità e grottesco, ricco di riferimenti al moto reale della storia europea di questo secolo ed insieme sotteso da una complessa trama di valori simbolici”. Sostanziose le considerazioni attorno alla pellicola “Teorema”, datata 1968, consacrata all’infuocato tema dei rapporti interfamiliari, da considerare, rimarca Zanzotto, “come la sintesi rappresentativa della presenza di Pasolini, specie nella direzione di una poesia totale, capace di inglobare tutto in sé”. E, ancora Pasolini, presente in maggior misura con la propria “assenza che porta molti a chiedersi cosa farebbe o direbbe di fronte all’incalzare di fenomeni degenerativi della società ben al di là delle sue pur tragiche previsioni”. Non ultima, risalta, in “Motivi di un candore”, la figura di Nino Rota, il compositore “sembra volerci aiutare a ritrovare, come un folletto, quell’intramontabile deus gentile che è insito nella musica stessa”. Riflessioni invitanti, taglienti, sulla “derealizzazione” prodotta, sin dalle origini, dal cinema; sull’imminente genesi di muti “paradisi visuali”; sul  nostro vivere un tempo “damnatio memoriae”, fatuo, svuotabile, volto alla rimozione di memorie riservate ai posteri.
Grazia Calanna  
Insegnare al principe di Danimarca
di Carla Melazzini (Sellerio)

“Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consapevolezza del principe Amleto?”. Interrogativo leitmotiv di “Insegnare al principe di Danimarca”, sorprendete testo della “maestra di strada”, la travolgente Carla Melazzini, edizioni Sellerio. Una pubblicazione postuma, in nitido stile diaristico, curata dal marito, Cesare Moreno, che col verbo tratteggia la figura dell’amata. “La determinazione ad afferrare la propria identità contro ogni tentativo di cucirle addosso un vestito l’ha portata ad essere una delle poche persone, se non l’unica, ad abbandonare la Scuola Normale di Pisa di sua volontà e per dichiarata incompatibilità con un modo di fare cultura che sentiva lontano dal reale”. Intensa testimonianza di una missione condotta nel segno  della reciprocità: il “Progetto Chance”. Per  meglio dire, una scuola per ragazzi “svantaggiati” (tramutatasi in sicuro luogo d’identità incluso e sospeso dal luogo d’origine) in cui prepararsi alla licenza media assume plurimi significati. Riscattarsi dai reiterati fallimenti. Raggiungere un riequilibrio “biopsichico”, anche con il ripristino “di un vero gruppo dei pari”. Vincere “l’angoscia universale legata al non sapere” assaporando “la curiosità e il piacere di conoscere”. Una scuola animata da un credo concreto, perenne: “Preoccupiamoci di formare giovani  sicuri delle propria autonomia e dignità personale, e quando verrà il loro tempo stiamo certi che faranno le scelte giuste”. Affabile e generosa, l’autrice porge uno scrigno colmo di solide riflessioni: “considero dannosa ogni enfasi su una pedagogia puramente verbale del rispetto e dell’accettazione di tutte le specie di diversi e di emarginati, imposta a chi non si sente né accettato né rispettato nella sua entità di persona”; “i deboli soni i primi a soccombere; e i bambini sono - fra i deboli - i più deboli”; “la parola non è un diritto acquisito, ma si deve conquistare insieme, alunno e docente”; “condizione indispensabile per la costruzione di un gruppo di alunni sufficientemente buono è che esso si possa rispecchiare in un gruppo di docenti altrettanto buono”, “un laboratorio di linguaggi - verbali e non - deve essere uno spazio predisposto con cura perché vi possa avvenire il passaggio dal silenzio e dal chiasso alla parola e poi alla narrazione rispecchiata e condivisa che costruisce identità”. E, ancora, francamente, che “l’amore ha bisogno della prossimità fisica - gesti, sguardi, parole - per svolgere i suoi benefici effetti, sugli altri e prima di tutto su noi stessi”.
Grazia Calanna
L'Altro Fuoco
di Antonio Spadaro (Jaca Book)

L’esperienza della letteratura fiorita dalla parola fondatamente poetica, “biblico roveto ardente”, che, ritemprandolo, infiamma il lettore al quale instilla la propria “potenza espressiva”.  Parliamo dell’opera di Antonio Spadaro, “L’altro fuoco”, Jaca Book, che, nella prima parte, “Ritratti”, narra di nove scrittori, “tutti fortemente in tensione d’attesa”, accomunati dalla  “dimensione ardente”. Cesare Pavese, esige “di ancorarsi nell’essere, facendo un’intensa esperienza «contemplativa» di contatto”, mosso da un «urto impetuoso» s’incolla al mondo svelandone l’inarrivabile fantasioso del reale. Stig Dagerman, ha lo sguardo di un «bambino bruciato» che narra la vita  “opponendosi tanto ai fantasmi di un’ingiustizia cosmica, quanto alle pressioni dell’ingiustizia sociale”.  Rowan Williams, i suoi versi sono “come la pietra pasquale del sepolcro, che espira aria dai polmoni di marmo; una pietra che crepita nell’inesausta tensione che la sospinge via”. Oscar Wilde, arso dai livori del “diverso”, diventa “giocoliere di idee, prestigiatore del pensiero” aizzando una “sofisticata rivolta intellettuale”. Alda Merini, elegiaca, altalenante tra “abissi e vertigini”, tra “il «qui» della carne e l’«altrove» dello spirito”, tra “passione amorosa e tensione mistica,  pentimento e adorazione, tormento ed estasi”. Giorgio Bassani, singolare sospensione declina in una metrica «della tenerezza molto simile alla nostalgia» e «un’aria dolente, un moto di colloquio superstite, affranto». Bartolo Cattafi, pregiata voce del nostro ultimo Novecento, vive l’attesa come una forma di «rivelazione». La poesia, dichiara, è “più un fatto che un’idea”, sboccia “sotto il segno apparente dell’imprevisto”, è “nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale”.  Mario Luzi,  si colloca «nella grande tradizione della poesia come pratica salvifica». Dolore e inquietudine hanno  segnato l’itinerario luziano che “si è fatto ascensionale fino alla tappa del viaggio terrestre che si fa celeste”. Gerard M. Hopkins, “mosso dalla certezza che in fondo alle cose vive una freschezza fiammeggiante, sorgiva, custodita dallo Spirito Santo che «cova» con caldo petto e luminose ali”. La seconda parte del volume, altrettanto nitidamente, scandaglia, sei singolari “Figure”: il viaggio,“desiderio di una «terra promessa» che rende il passo sicuro, ma inquieto”; la frontiera, “spazio mitico dove è possibile rinascere immergendosi in uno stato di innocenza quasi adamitica”; la lotta, “immagine della drammaticità della vita e dei suoi conflitti”; il germoglio, capitolo dedicato alla poesia cinese che ha “il vantaggio unico di combinare il suono della parola alla sua immagine”; le cose, “il significato della nostra esistenza si gioca anche nel modo in cui viviamo con gli oggetti”; il logos, “l’accostarsi alla figura di Gesù per conformarsi ad essa, entrare in dialogo o scontrarsi con essa implica necessariamente il «cogliere il vero fondamento della [sua] storia», il suo significato, il suo logos”.   
Grazia Calanna
In un corpo solo
di Claudio Bagnasco (Quarup)


Storie che scivolano. Non possiamo, non vogliamo trattenerle, eppur scivolando graffiano. Storie che scuotono, malmenano dall’intimo. Storie che vestono gli incubi (tangibili) della corporeità. L’anima fiata digrignando i denti di corpi fantocci appesi al filo della follia dilagante. L’anima è un puzzle difettoso intrappolato in un corpo accidentale. L’anima a dispetto del titolo -  o forse no - è la protagonista di questo meandro emozionale.  Parliamo del libro intitolato “In un corpo solo”, novità letteraria di Claudio Bagnasco, edizioni quarup. Oltreché per la meticolosità, lo scrittore genovese, si riconosce per originalità espressiva e stile ghermente, “Forse perché la bellezza deve stare da sola e non confondersi con l’amore, forse perché l’unico riscatto dalla fine è un nuovo inizio”. Afferra il lettore con la forza di un assunto accattivante, “A Carla piace, quando ha tempo, stendere i principali quotidiani nazionali sul letto e leggere in ognuno la medesima notizia, per scoprire in quanti modi diversi ma in fondo identici si possa essere lontani dalla verità”,  con altrettanto vigore lo spinge tra le braccia della riflessione o, per meglio dire, al centro di un incrocio meditativo, “Se non avessi paura. Saprei distinguere le cose, pretenderle, impugnarle, e le persone le nominerei tutte e voce alta, coglierei al volo le differenze, e così anch’io sarei capace di scegliere”.                                               
Grazia Calanna  

L’ombra della salute
 di Alberto Pellegatta (Mondadori)

“I sani sono malati che s’ignorano”, compiuto compendio, la riflessione di  Jules Romains, accompagna, puntellata da un confidenziale sentore di solitudine esistenziale, la lettura della silloge “L’ombra della salute” di Alberto Pellegatta (Mondadori - collezione Lo Specchio). Il poeta, salpando da magistrali “esperienze pittoriche”, si pensi ai dipinti veneziani dell’impressionista Joseph Mallord William Turner, peculiarmente quelli che raffigurano la Basilica di Santa Maria della Salute, scandaglia quel “mistero sconcio, meraviglioso e, finalmente, senza futuro” che è - giustappunto - la salute dando un energico scossone a quanti, tra “spaventosi silenzi primitivi popolati da svelti passanti”, credono che per vivere sia necessario “aspettare l’anno prossimo” dimentichi, or ora, che “l’attimo presente, è la capitale del Tempo”. Scultoreo, afferra la bruta contemporaneità, “inclinata assumendo un moto incongruo e complesso”, restituendola secondo un meccanismo “quantico, fragile e infinitesimale nel dettaglio”. Liriche cromatiche, scandite floride reminiscenze, “la memoria ha stanze immense, camere colme di specchi”; lancinanti, per via di un’attualità “intermittente, come un’immagine rotta”; sferzanti, “la morte è una specie di cottura. Devi essere vivo per cuocere tanti anni. Il sangue si fa crema, schiuma, le gambe si allargano, si gonfiano le nocche, cedono i tessuti. La malattia produce acqua e persino la nascita brucia”; ineluttabili, alla maniera di “quei gesti sospesi nelle ore e il tono nei metalli”. Versi pervasi dall’odore aguzzo della consapevolezza, “si insinua il sospetto che la loro soluzione sia la nostra rovina. Così si disfa il fuoco”; dalla graffiante lusinga dell’evo che avanza, “un mulinello assorbirà ogni cosa persino i baci della bocca. E il labirinto affonderà nella siepe stessa. I pesci saranno ferite dell’acqua, il paesaggio ormai sfuocato. Mentre si consumano i denti”; da pungente nitidezza, “nel corpo tonico o nelle quiescenze meridiane degli oceani, si nascondono correnti devastanti, flessioni squassi e squagliamenti”; da suadente derisione, “mentre l’altro muove mostri muscolosi e densi verso il bagno, rinnova la richiesta del mattino col dialogo addormentato dello spazzolino. La tapparella filtra la glassa del giorno. Rumina nel grigio cavo molle del cervello”. E, ancora, “intanto che il paesaggio fonde disarmato”, avvincente il “Corso di Retorica per Signore” con relativa imbeccata, “diffidate delle nicchie sicure, della tane consolatorie come diapositive. Non date credito agli angeli, Dio è tornato signore degli eserciti”. E, concludendo, in un momento in cui “il tempo è spazio che si espande”, Pellegatta domanda - qualora fossimo veramente - “Chi siamo?”. Generoso, porge la riflessione e azzarda: “Molluschi siamo in una maglia di legami”.  
Grazia Calanna
Mia Figlia Follia
di Savina Dolores Massa (Il Maestrale)

Lealtà, diletto, sale esistenziale, sgravio d’ansietà, spontaneità e, inequivocabilmente, il dono della vita. Elogi scelti, converrebbe anche Erasmo, per tratteggiare le peculiarità di un singolare personaggio, Maddalenina, nel quale c’imbattiamo scoprendola - d’inesplicabile tenerezza - intenta a predisporsi “all’innamoramento” o, meglio, alla conquista di un uomo (o poco più) magari mettendo un po’ di “profumo di violetta dietro le orecchie”. E, poi, fortuna che, come pensa l’amica silenziosa (dal pensiero chiassoso), Maria Carta (“la tana”), una pianta “è secca per chi non sa vederla oltre la corteccia”. Disarmante “nel ripasso della sua  vita”, attenta persino alla sofferenza delle cose alle quali - con aliena mitezza - riconosce un’anima. Così al proprio diletto cero (votivo) - esilarante in libertà - al quale narra “storie della neve” auspicando, per l’indomani, minor sofferenza (dovendolo bruciare); alle bambole, più volentieri nuove così da poterne individuare l’età, perché - garantito - quelle “vecchie” non capirebbero la figlia (di fantasia?) durante il gioco. Una storia che ci sbatacchia ricordandoci ancora (e ancora) che il pregiudizio incatena; che non ci servono “registi invisibili”, abbiamo la ragione; che dentro la nostra casa (l’interiorità) possiamo scorgere “molte cose”; che non basta osservare nella medesima direzione per vedere similmente. E che se buttassimo “all’immondezza la scatola” (ricolma di danaro) torneremmo a “vedere le stelle”. 
Grazia Calanna